Il viaggio: una storia breve di Eva Pedersen

 Il viaggio: una storia breve di Eva Pedersen

Tutti combattiamo il dolore in modi diversi. C’è chi beve, chi si rinchiude a casa, chi rimane al telefono per ore, anche quando mancano le parole. Io conosco solo un modo: andarmene. Cioè, fuggire, lontano, valigia in mano, senza mai guardare indietro, in fretta e furia, come spinta da un demone. Ma tutto a un’unica condizione: che ci sia lei.
Così ce ne andammo.
Prendemmo l’Aurelia. Fra lacrime e radio troppo alta finimmo in Toscana e, senza mai fermarci manco per un caffè, arrivammo a Grosseto. Io avevo bisogno di un bagno, e lei di riposarsi un po’. Mentre eravamo a Grosseto, mi ricordai di avere due amici in zona.  Due amici di Roma che da un paio di anni si erano trasferiti in Toscana dove avevano aperto un agriturismo. Chiamai Riccardo, uno dei due.
«Sei sicura di trovarlo», disse quando mi spiegava dov’era il loro piccolo podere. Avevo il telefono scarico e lui sapeva che non potevo contare sul navigatore.
«Sì, sì, non ti preoccupare. Ho capito dov’è». Mentii.
«Fai buon viaggio allora», disse lui e attaccò.
Mi rivolsi a lei: «Andiamo?».
Rimase in silenzio, ma capii dalla sua postura che era d’accordo.
«Ti va bene se metto la musica di nuovo?».
C’eravamo allontanate dal centro e mi pesava il silenzio. Avevamo ascoltato lo stesso disco praticamente da Roma fin lì: musica impegnativa e coinvolgente, una coperta vellutata di accordi e disaccordi, un riflesso preciso di quello che sentivo dentro. A me faceva stare meglio ma forse lei se ne era stancata? Non sembrava. Non disse niente ma continuava per la sua strada come se niente fosse, solida e sicura. La toccai dolcemente con la mano come per ringraziarla. Come avevo bisogno di lei!

L’autostrada divenne una strada extraurbana principale, poi secondaria, e finalmente, quando iniziò a salire, eravamo sulle strade bianche della campagna toscana. Non c’erano più macchine, ogni tanto costeggiavamo piccoli paesi. Facevo fatica a distinguerli l’uno dall’altro, erano così simili con il bar, forse una trattoria, la chiesa, il palazzo del comune e un’unica fila di case.
Alcune salite erano pure molto ripide. Non ero abituata, e a volte avevo paura. Mi ricordo in particolar modo una, ripidissima, con una curva pronunciata verso la fine.
«Questa non ce la faremo mai a percorrerla», dissi.
Lei non mi dava ascolto, non c’era spazio per dubbi dentro di sé.
Avere un’amica del genere è un regalo divino. Ogni volta che mi sento stanca, priva di energie, in dubbio, quando mi manca il coraggio, mi prende sulle sue spalle e mi trascina attraverso la nebbia di dolore e paure, fino al momento in cui non usciamo dall’altra parte dove c’è il sole.
Solo una volta fece cenno di volersi fermare. Aveva sete.
«Uhm, perché non me l’hai detto prima?». Silenzio. Ancora. Sapevo di essere stata ingiusta, ero stata io a spingerla a continuare. Però eravamo in mezzo al nulla, e non avevo idea di che strada prendere per comprare da bere. Mi venne in mente un posticino che avevamo incontrato un po’ di tempo prima, sicuramente lì avremmo trovato qualcosa. Anche se significava allungare il viaggio di quasi un’ora e sarebbe diventato buio presto. Tornammo indietro.
Non disse niente, ma la sua gratitudine era evidente.

In cima a una collina, in mezzo a duemila pecore, capii di aver sbagliato strada. Ci fermammo alla casa di un pastore, dove lui, brusco e diffidente verso i visitatori inaspettati, disse che il paese che cercavo era da un’altra parte. Io mi guardavo in giro. Non si vedevano altro che centinaia di colline simili a quella del pastore.
«C’è un incrocio a cinque chilometri da qui», aggiunse il pastore «…è lì che vi siete sbagliate. Dovete andare a sinistra, non a destra, venendo da giù» continuò con un tono un più accogliente, forse perché aveva visto la mia faccia.
Il pastore non mentiva. Qualche chilometro dopo l’incrocio, vidi finalmente le indicazioni per il paese che aveva nominato Riccardo. Ci fermammo nella piazza principale, davanti al bar. Fra il legno scuro di centinaia di anni toscani, pacchi di sigarette, due barrette di cioccolata in carta lucida che sembrava venire da un’altra pianeta, e il giornale provinciale, vidi cinque ombre. Erano vestite con abiti da lavoro ed emettevano un profumo inconfondibile di bosco. Gli uomini del paese!
«Salve, buongiorno» dissi al gruppo.
«Buonasera» risposero.
«Conoscete due romani, Riccardo e Marilù, che hanno aperto un agriturismo qui nei dintorni un paio d’anni fa?».
Gli uomini del paese si guardarono l’uno con l’altro, poi guardarono me. Dopo qualche instante uno schiarì la voce: «Sarà il podere giù nella valle. Prendete questa strada, poi al primo incrocio a destra, seguite la strada, prendete la terza a sinistra e siete arrivati».
«Grazie» risposi, ma c’era un silenzio nell’aria, intuii che non avevano finito, che mancava un dubbio da chiarire, un vuoto da riempire.
«Signorina, è una strada bianca, lei è sicura di potercela fare?» chiese un altro.
Sorrisi: «Abbiamo fatto molto peggio, signore!».
Uscii sulla piazzetta del piccolo paese toscano, dove mi fermai e la guardai.  La mia compagna di viaggio, stanca ma solida come una roccia metallica, brillava nella luce ancora calda dei ultimi raggi del sole.
«Ce l’abbiamo fatta, amica, dissi mentre aprii la portiera». Lei, come al solito, rimase in silenzio, ma io capii che era contenta. La rimisi in marcia e la guidai lentamente nella direzione giusta.

Foto di Jan Alexander da Pixabay

Eva Pedersen

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