Scrittori innamorati: 5 storie d’amore (letterario) che dovresti conoscere
Se c’è una cosa che accomuna tutti – a prescindere dalle generazioni, dalle esperienze, dalle personalità – è l’amore. Non è necessario essere romantici per riconoscere che è esattamente questo l’ingrediente fondamentale di molte storie: che si tratti di una canzone, di un film o di una fiaba della buonanotte.
In letteratura potremmo citare svariati esempi: chi potrebbe mai dimenticare la tragica vicenda di Romeo e Giulietta? Chi non ha mai sognato di danzare nelle braccia di Mr. Rochester?
Oggi, tuttavia, non vogliamo parlarvi di romanzi, ma di scrittori, ripercorrendo cinque storie di uomini e donne che hanno vissuto l’amore in prima persona e l’hanno raccontato attraverso poesie e lettere che continuano – anche a distanza di tempo – a commuoverci.
Natalia Ginzburg e Leone Ginzburg
È passato solo poco tempo dal 27 gennaio, giorno in cui si è ricordata la terribile carneficina compiuta sotto il regime nazista. Questa storia ha a che fare esattamente con quel periodo devastante. Leone Ginzburg – che è uno dei protagonisti del nostro racconto – era, infatti, ebreo. Ma non solo: fu un autentico antifascista e soprattutto un intellettuale militante. Morì in carcere dopo essersi rifiutato di collaborare con i tedeschi, gli stessi che lo avevano violentemente aggredito. E Natalìa, sua moglie, rimase sempre fedele alla memoria di quest’uomo così coraggioso, tanto da mantenerne il cognome e rinunciare al proprio – in un chiaro segno di devozione. La storia che li lega è la storia di un amore fatto di rispetto e cura giornaliera, umiltà e condivisione. Non era stato un amore folgorante: quando i due si erano conosciuti, Natalìa aveva trovato Leone «bruttino». Eppure, l’amicizia che vi era tra lui ed uno dei fratelli di lei, la portò a conoscere un carattere solido, fermo, deciso, che invidiava e di cui avvertiva il bisogno. Leone fu, per Natalìa, una sorta di guida politica e spirituale. Nelle ultime parole che le indirizzò, prima di morire, scriveva: «Attraverso la creazione artistica ti libererai delle troppe lacrime che ti fanno groppo dentro; attraverso l’attività sociale, qualunque essa sia, rimarrai vicina al mondo delle altre persone […] Come ti voglio bene, cara. Se ti perdessi, morirei volentieri […] Ma non voglio perderti, e non voglio che tu ti perda nemmeno se, per qualche caso, mi perderò io […] Ti amo con tutte le fibre dell’essere mio […] Sii coraggiosa». E di questo coraggio Natalìa avrebbe avuto un estremo bisogno nel futuro più prossimo, perché tempi bui la stavano aspettando. Doveva fuggire, sottrarsi alle ricerche dei tedeschi, mettere al sicuro i figli, cercare di sopravvivere in qualche modo. Ma, soprattutto, doveva venire a patti con la morte di Leone per convivere pacificamente con il suo ricordo. Di quello sforzo rimangono pochi, strazianti, versi: «Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo / a guardare il suo viso per l’ultima volta. / Se cammini per strada nessuno ti è accanto. / Se hai paura nessuno ti prende la mano […] Sollevasti il lenzuolo per guardare il tuo viso, / ti chinasti a baciarlo con gesto consueto. / Ma era l’ultima volta..» (Memoria).
Fanny Brawne e John Keats
Il mio Credo è Amore, e tu ne sei l’unico dogma. Mi hai rapito grazie a un potere cui non posso resistere; eppure fui capace di resistere finché non ti vidi; e anche dopo averti cista mi sono sforzato spesso di “ragionare contro le ragioni del mio amore”. Ora non ne sono più capace. Il dolore sarebbe troppo grande. Il mio amore è egoista. Non posso respirare senza di te.
Le parole che avete appena letto sono tratte da una delle lettere contenute nell’epistolario Leggiadra stella. Nessun altro titolo sarebbe stato più azzeccato: proprio così, infatti, Keats chiamava la sua Fanny. Questa storia sembra essere stata tratta da un classico romanzo d’amore: lei è la ragazza della porta accanto; lui è un fragile poeta che sogna di poter raccontare la bellezza e la verità. Si innamorano dopo essersi guardati a lungo, tra passeggiate nella natura e letture condivise. A un certo punto, però, la vita prende il sopravvento: Keats scopre di avere la tubercolosi e si trova costretto a trasferirsi in Italia, lì dove il clima è più mite. I due si separano, si promettono di rivedersi. Non accadrà mai: solo un anno dopo lo scrittore morirà a Roma. Sembrerebbe tutto finito. Ma è il 1865 quando figli di Fanny scoprono un baule pieno di lettere – le stesse che i due si scambiarono nel corso del tempo. Erano state nascoste per preservare un amore che nessuno avrebbe mai potuto comprendere. Ed è per questo che – nonostante siano passati, da quel giorno, quasi duecento anni – Fanny e Keats continuano a commuoverci, testimoniando un legame che sembra aver vinto anche la morte:
La malattia è un lungo sentiero, ma alla sua fine vedo te, e affretterò il mio passo quanto più possibile. […] Non sarò mai capace di dirti del tutto addio.
Constance Dowling e Cesare Pavese
Quando si parla di Pavese è inevitabile non ricordarne il carattere scontroso e riservato. Ed è forse proprio per questo che la sua storia ci sorprende tanto: sembra impossibile che un uomo come lui possa essere diventato tanto fragile nelle mani di una donna. Lei si chiama Constance, è americana e fa l’attrice. Si conoscono nel 1948, durante una sua tournée in Italia. Pavese ne rimane tanto colpito da dedicare proprio a lei la sua ultima raccolta di poesie: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. E potremmo dire, con relativa certezza, che Constance rappresentò un vero e proprio punto di svolta nella vita e nella poesia dello scrittore. Lo capiamo soprattutto da un dettaglio presente nella raccolta a cui accennavamo prima: qui la poesia incipitaria e quella conclusiva non compaiono in italiano, ma in inglese – la lingua di Constance. È come se ci trovassimo, quindi, di fronte a una vera e propria dichiarazione di poetica: tutto improvvisamente sembra potersi riassumere in un’identità ben precisa – lei e nessun altra. Ed è anche da questo che capiamo perché Constance diventò una vera e propria ossessione per Pavese, che le rimase legato anche dopo la fine della loro relazione. Solo lei era riuscita a dare un senso a una vita che fino a quel momento era apparsa vuota e inutile; solo lei poteva lenire una sofferenza tanto dilaniante:
Le cose, nel cielo e nel cuore / soffrono e si contorcono / nell’attesa di te.
Elsa Morante e Alberto Moravia
Anna Folli, che qualche anno fa ne ha scritto una biografia, li chiama “MoranteMoravia”, quasi a sottolinearne il legame inscindibile. Erano due scrittori, prima di tutto: lei cercava nella letteratura l’incanto che non le era stato concesso durante l’infanzia; lui indagava con precisione e razionalità le contraddizioni del mondo borghese a cui apparteneva. Avevano avuto giovinezze diverse e educazioni diverse, ma quando si incontrarono nel 1936, in una birreria, qualsiasi differenza sembrò annullarsi.
Vissero un amore intenso e anti-convenzionale: al loro matrimonio non ci furono anelli, ma un mazzo di mughetti. Attraversarono la guerra e le tragedie storiche con forza e coraggio, correndo da Napoli a Roma e continuando a scrivere – sempre, perché questo era ciò che gli veniva più spontaneo. Ma la loro relazione a un certo punto si incrinò, diventando ruvida e tagliente: non ci sorprende, a questo proposito, che la Morante si sia sempre fatta interprete nei suoi romanzi di amori impossibili, né che Moravia sia arrivato a scrivere del fallimento di un matrimonio (ne L’amore coniugale). Eppure, nonostante le incomprensioni, nonostante la rottura – che, immancabilmente, arrivò – MoranteMoravia continuano ad essere ancora oggi una delle coppie più affascinanti che il nostro Novecento italiano abbia mai conosciuto. Forse perché – in tutta onestà – è un po’ il sogno di tutti noi vivere un amore fatto di parole e letteratura.
Virginia Woolf e Leonard Woolf
Concludiamo questo viaggio con un’altra coppia di scrittori, non più italiani ma esteri. Del rapporto che esisteva tra Leonard e Virginia Woolf esistono dei meravigliosi ritratti nei Diari di lui (alcuni di questi sono stati pubblicati da Lindau). In quelle righe ritroviamo le giornate passate a scrivere, le incomprensioni, ma soprattutto il senso d’impotenza di un amore che vorrebbe essere salvezza ma è consapevole di non riuscirci. E, probabilmente, vivere accanto a una donna che è travolta da un dolore immane – amarla, nonostante questo, nonostante neanche lei riesca ad amarsi – è l’impresa più ardua che un essere umano possa intraprendere.
Sono necessari, infatti, forza d’animo, coraggio, un legame vero. E alla fine, quando ci si rende conto che neanche questo è bastato, viene naturale chiedersi se la colpa non sia stata anche un po’ nostra. È esattamente questo il sentimento con cui Leonard scrive ogni qualvolta ricorda la sua Virginia. Tra loro esisteva, prima di tutto, un rapporto di stima intellettuale. Ma non solo: c’era anche affetto, condivisione, letteratura. Niente di tutto ciò bastò a salvarla dal dolore che la rodeva, come dicevamo prima. Ma è comunque toccante ritrovare, nelle parole che Virginia scelse per salutare il suo compagno di una vita, quel sincero senso di commozione che si può provare solo e soltanto nel ricordo di una felicità realmente vissuta:
Tu mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso tutto quello che un uomo poteva essere. So che ti sto rovinando la vita. So che senza di me potresti lavorare e lo farai, lo so… Vedi non riesco neanche a scrivere degnamente queste righe…Voglio dirti che devo a te tutta la felicità della mia vita. Sei stato infinitamente paziente con me. E incredibilmente buono. Tutto mi ha abbandonata tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinare la tua vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi.
Rebecca Molea