Cosa c’entrano i Beatles con una casa editrice? Storia di “Revolver”, il progetto editoriale eroico che lavora tra Spagna e Italia
È nata solo da un paio d’anni e già promette di diventare una casa editrice eroica, una di quelle che scardina il sistema editoriale andando contro le logiche del mercato; una di quelle che dà voce a chi ha davvero una storia da raccontare prendendo ogni progetto editoriale in mano come se fosse un figlio. Tutta la storia di Revolver, raccontata da Matteo Paoloni, il direttore editoriale.
Com’è nata Revolver?
La storia è un po’ particolare, a me è quasi piovuta addosso come opportunità.
Com’è andata?
C’era una piccola casa editrice dello stesso gruppo di cui fa parte Revolver, La torre dei venti che adesso non esiste più, con cui ho pubblicato anche un libro. La direttrice editoriale mi aveva proposto di prendere il suo posto. Inizialmente mi davano una collana, poi avrei preso tutta la casa editrice, ma alla fine è saltato tutto.
Cosa è successo dopo?
Sono rimasto con questo progetto in mano. Ci avevo lavorato abbastanza, e avevo preparato già un piano di restyling. Così ho fatto la proposta allo stesso gruppo editoriale chiedendo di aprire un nuovo marchio, e loro hanno accettato la richiesta. Eravamo due all’inizio, il progetto è nato nel 2022, la casa editrice ha pubblicato il primo libro nel 2023.
Chi c’è dietro a Revolver?
Siamo in quattro. Io sono il direttore editoriale, poi ci sono due editor, uno dei due si occupa anche dei social, e un’altra persona che si occupa di commerciale e ufficio stampa. Però all’inizio non è stato così.
E com’è stato?
All’inizio eravamo in due: io e un’altra persona che ora non lavora più. Fondamentalmente, ero una sorta di one man band: sceglievo i testi, li lavoravo.
Era già nel mondo dell’editoria prima di Revolver?
Sì, faccio l’editor già da prima: ho dato io l’impronta e la linea editoriale, e sinceramente non pensavo che in maniera così rapida sarebbero arrivati tantissimi testi. A un certo punto abbiamo anche dovuto chiudere la mail: siamo pochi e ci è letteralmente impossibile leggere tutto. E ho dovuto riavviare la squadra.
E come lavorate adesso? Avete una sede?
Lo facciamo a distanza, io sono in Spagna e questo complica un po’ tutto.
Anche nell’era digitale? Come mai?
Perché l’editoria si fa sul posto e io all’inizio avevo il grande handicap di non essere fisicamente presente a Roma o Milano dove c’è il centro di tutto, parlare con gente dell’editoria, fare i cosiddetti contatti. Ora per fortuna questa cosa è migliorata, anche se un editor è a Roma, uno a Milano e l’altra collaboratrice si è trasferita da poco a Torino.
Da dove nasce il nome Revolver?
Revolver è un disco dei Beatles. Io e il mio primo collaboratore abbiamo a che fare con la musica: io ex musicista, lui lo è ancora. Entrambi siamo cresciuti con i Beatles, il nostro disco preferito era Revolver.
La scelta del nome, quindi, è solo per una predilezione personale? Perché non un altro disco?
Revolver è decisamente più ruvido dei lavori precedenti e anche piuttosto visionario: ci piaceva l’idea di prendere come reference proprio questo disco. E poi in spagnolo revolver vuol dire anche mescolare.
Cosa volevate mescolare?
Mettere insieme cose che tra loro apparentemente non stanno bene. Abbiamo una linea editoriale che è abbastanza precisa dal punto di vista concettuale, ma vaga dal punto di vista delle indicazioni che diamo.
In che senso?
Non escludiamo niente, una cosa che a noi interessa è la qualità, un certo tipo di voce, anche se siamo abbastanza fluidi e disposti a valutare di tutto. Di sicuro, facciamo letteratura non mainstream che la grande editoria non pubblicherebbe.
Cosa c’entrano i libri con la musica?
I libri hanno un legame con tutto, non solo con la musica.
Ci faccia un esempio che racconti questa unione.
Roberto Bolaño, che è il mio scrittore preferito, scriveva con la musica a palla ascoltando heavy metal. Probabilmente senza questa predilezione i suoi libri sarebbero stati meno potenti. Dunque, la musica entra nei libri non solo con le citazioni dei dischi inserite all’interno, ma anche con la musicalità che viene da fuori e si imprime sulle parole mentre si scrive. La letteratura è ritmo, in tutti i sensi.
Avete due collane che si chiamano con i nomi di due donne menzionate in due canzoni dei Beatles. Come mai questa scelta?
Sì, Eleanor e Michelle. È un gioco. Ce ne saranno altre di collane, con i nomi delle ragazze presenti nelle canzoni dei Beatles perché pensiamo che la letteratura contemporanea sia molto più femminile che maschile. Siamo in un momento storico in cui la letteratura sta diventando più femminile, finalmente.
Cosa vuol dire che adesso la letteratura è più femminile?
È evidente che per secoli la letteratura è stata maschile. Le scrittrici del passato, o non potevano scrivere, o se lo facevano usavano pseudonimi perché non era permesso, o i mariti rubavano le opere delle mogli. Finalmente, adesso, anche sull’onda dei movimenti femministi, l’espressione femminile è diventata qualcosa di primario, con cui dobbiamo fare i conti.
Quanti titoli pubblicate all’anno?
Pochi, quattro o cinque, ma per vari motivi.
Quali sono i principali?
Purtroppo, non si sopravvive solo lavorando con una casa editrice come la nostra. Non abbiamo le risorse per dedicare tempo e denaro a tanti titoli. Ogni libro, per quanto piccolo, lo lavoriamo tanto. Non facciamo come quelle case editrici che adesso fanno una correzione di bozze e mandano il libro in stampa. Noi siamo vecchio stampo, impieghiamo anche molti mesi per lavorare un libro che a volte va anche riscritto, come è il caso di Le massaggiatrici, la nostra ultima uscita.
E a cosa serve riscriverlo, non si perde l’anima dell’autore?
L’anima dell’autore si perde se il libro non rispecchia esattamente le intenzioni di chi lo scrive. Per arrivare a questo punto, a volte, è anche necessario riscrivere. Nel caso di Le massaggiatrici, è stata un’operazione editoriale ponderata. Negli anni Settanta c’era questa collana di Feltrinelli, i Franchi Narratori, che portava avanti Nanni Balestrini, in cui venivano pubblicate storie di non scrittori, di persone che non c’entravano nulla con la scrittura editoriale e che spesso non sapevano nemmeno scrivere. Ci siamo rifatti a loro.
E perché se non sapevano scrivere li pubblicavano?
Erano storie di strada con un forte potenziale letterario, che altrimenti sarebbero rimaste invisibili. Il compito dell’editore era rendere queste storie letteratura. È stato lo stesso con Le massaggiatrici di Annalisa D’Alconzo. Quando abbiamo ricevuto il manoscritto, ci siamo resi subito conto del suo valore. Pur non essendo una scrittrice, Annalisa aveva portato una storia autentica, con al suo interno materiale da letteratura. Insieme a lei, dunque, abbiamo lavorato a fondo per rielaborarla e renderla tale. È una storia potente che rischiava di andare perduta. Tutto questo processo è spiegato chiaramente nel libro, senza nascondere nulla.
Il vero scrittore chi è: chi sa scrivere in uno stile perfetto o chi ha solo una storia da raccontare ma non sa scrivere?
Uno scrittore vero per me deve avere qualcosa da dire e deve sapere come farlo. Non ha molto senso un libro impacchettato bene, scritto in maniera impeccabile ma che gira a vuoto. Gli esercizi di stile sono importanti come preparazione alla scrittura, non come stesura finale. E ha ancora meno senso, a mio avviso, una bella storia raccontata male. Lo stile è il marchio di fabbrica, e noi siamo abbastanza ossessivi su questo punto, sulla voce, su come si dicono le cose, è il motivo per cui esistiamo. Però è anche vero che in quest’ultima operazione abbiamo deciso di fare un esperimento diverso, di democratizzazione dello spazio culturale, e siamo molto felici del risultato.
Quindi in questo caso non si parla di ghost writing?
No, assolutamente. Nel libro abbiamo inserito anche una nota dell’editore per raccontare tutta l’operazione editoriale. Non prendiamo mai in giro il lettore.
L’autrice del libro ci ha mandato un libro, non solo l’idea, il problema era che aveva giustamente le criticità di una persona che non aveva scritto nulla. Noi l’abbiamo semplicemente affiancata, supportata, ma si può tranquillamente affermare che il libro l’ha scritto lei, è una sua creazione, anche se ha la forma che ha grazie al nostro aiuto.
C’è un fil rouge che collega i libri che pubblicate?
Sì, a noi interessano libri che altrimenti la grande editoria non pubblicherebbe.
Cosa intende?
Senza polemica. La grande editoria pubblica i grandi nomi, che sono un po’ sempre quelli. E questa è una piccola parte. Le scommesse sugli esordienti ci sono, ma raramente sono scommesse di rottura o sperimentazione. Faccio un esempio che racconta la mia esperienza personale. Io sono anche un autore e vengo seguito da un agente che aveva proposto un mio libro a grandi case editrici come Einaudi, Feltrinelli, Mondadori.
E com’è andata?
Non bene perché per Mondadori ero troppo «angoscioso» e «poco canonico» per il loro pubblico che è generalista, e un autore sconosciuto che pubblica roba di questo tipo non va bene, hanno già i nomi forti che fanno questa cosa qua. Feltrinelli mi ha detto la stessa cosa. Ecco, questi sono i libri che non vengono pubblicati.
Possiamo far rientrare tra i «libri che non non vengono pubblicati» anche le raccolte di racconti che, si dice, siano lette molto meno rispetto a un romanzo?
Questo è quello che dicono, il famoso cane che si morde la coda: se le case editrici insistono sul dire che i racconti non si vendono e non si pubblicano succede che la profezia alla fine si avvera. Io invece dico che i lettori forti i racconti li leggono. Un esempio ne è la validissima casa editrice Racconti edizioni, che ha il suo target. Poi succede un fatto strano.
Quale?
È una cosa molto triste e anche molto italiana: i racconti stranieri, soprattutto americani, sono visti bene mentre quelli in italiano no, perché in Italia, si dice, non c’è una tradizione narrativa legata al racconto. Mi piacerebbe davvero sapere chi è a dirlo.
E perché, dall’altro lato, i gialli tirano moltissimo?
Perché di base il giallo è l’intrattenimento d’eccellenza: ci sono un mistero, quasi sempre un cadavere e la ricerca del colpevole. È un prodotto immediato e accessibile, ma dentro al genere si trovano ovviamente anche dei veri e propri capolavori. Per scrivere un buon giallo, comunque, serve maestria: il genere ha regole precise che vanno rispettate, e risulta difficile riuscire a innovare. Ecco perché quando succede, succede anche la magia. Però è raro, e con la quantità di pubblicazioni attuali si rischia di saturare gli scaffali con opere di scarsa qualità.
Revolver ha intenzione di pubblicare gialli?
Probabilmente non li pubblicheremo, però dipende da quello che ci arriva. Se c’è qualcosa di questo genere che ha una visione diversa, appunto, non lo escludiamo.
Quale deve essere la visione diversa? Faccia un esempio.
Ho appena finito di leggere L’indignata di Giuliana Zeppegno (TerraRossa edizioni, 2024) che ha un piccolo sfondo giallo ma non è un libro canonico, è un libro validissimo.
Avete aperto una call per un’antologia di racconti?
Revolver compie un anno e l’idea era di realizzare un progetto celebrativo della ricorrenza, a carattere giocoso. Credendo fortemente nella forma racconto, in questo modo diamo la possibilità agli autori di essere pubblicati. Questa non è la solita call, però, non vogliamo che gli autori scrivano appositamente un racconto per questa antologia, ma accettiamo anche racconti già pubblicati, magari su altre riviste.
Qual è lo scopo di questa antologia?
Quello che a noi interessa è avere un libro che sia veramente valido, che racconti com’è il panorama del racconto in Italia. Se non ci arrivano testi di questo tipo e non riusciamo a pubblicare la raccolta va bene lo stesso, per noi conta il livello di qualità e se non si riesce a raggiungerlo non abbiamo problemi a non pubblicare.
Quali saranno le prossime pubblicazioni?
Stiamo lavorando a un libro di racconti molto Revolver con una scrittrice che ha un suo percorso, uscirà a inizi primavera. L’altro è un romanzo breve, interessantissimo, di uno scrittore che fino ad ora si è dedicato alla critica teatrale. È un esperimento metaletterario: la storia racconta di un autore a cui viene chiesto di scrivere la prefazione del libro della sua compagna scomparsa.
Avete intenzione di fare tradurre i libri?
L’intenzione ce l’abbiamo, però per ora non abbiamo i mezzi.
Avere una casa editrice implica molte spese, come ad esempio un magazzino per le copie, voi come gestite la questione?
Facciamo parte di un piccolo gruppo editoriale che ci mette a disposizione un magazzino e usiamo la loro distribuzione, il che sicuramente è un aiuto, anche con tutte le limitazioni del caso. Loro di fatto ci mettono le risorse economiche, dandoci così l’unica possibilità di esistere in un mercato davvero complesso. Ma ovviamente tutto questo ci lega anche a dinamiche che non ci soddisfano del tutto, dato che giustamente dobbiamo dividere i guadagni che in questo modo si riducono tantissimo. Per ora ci va bene così, comunque, anche perché non abbiamo molta scelta, ma non è detto che in un futuro non ci piacerebbe diventare totalmente indipendenti.
Ha ancora senso stampare libri nel 2024?
La risposta di pancia è no. Quella ponderata è sì, ha senso nel momento in cui i libri hanno senso. Ciò che non ha senso è che esista una filiera malata che pubblichi non so quanti libri al giorno, il 95% dei quali è riconducibile a qualcosa di simile alla spazzatura. Questo non significa biasimare gli autori, scrivere è un diritto sacrosanto e appartiene a tutti. Il problema è il modello di business di certi editori poco seri, che puntano a guadagnare pubblicando senza criterio, spesso sfruttando gli autori stessi, costretti a comprare copie del proprio libro. Noi non seguiamo questa logica: non lo facciamo per soldi e non viviamo di questo. Se lo facessimo, dovremmo pubblicare venti titoli l’anno.
E perché lo fate?
Per amore della letteratura, te lo dico senza retorica. L’idea di avere uno spazio in cui possiamo decidere noi cosa pubblicare senza vincolo di mercato e pubblicità, alleggeriti anche dal fatto che non deve succedere per forza, è entusiasmante. L’importante, alla fine della storia, è che sia degno.
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