Antonio «Pronostico» Sileo: vita, morte e miracoli di un illustratore italiano. Intervista
Di lui dice di non essere un bravo grafico, di essere forse un mancato architetto, ma anche uno che ci crede fortemente in quello che fa.
Si sta facendo strada tra i migliori artisti italiani: è arrivato a esporre le sue opere a Parigi e a illustrare per riviste a tiratura nazionale come «L’Espresso», «la Repubblica» (web), «La Stampa» (web), «Internazionale», «Domani», «America» (FR), «Jacobin Italia» e molte altre.
Eppure lui, Antonio «Pronostico» Sileo, ha cominciato a disegnare solo a 19 anni. E prima? Tutta la storia di «il talento nasce da bambini» dove la mettiamo? Ce la spiega lui in questa intervista.
Vita, morte e miracoli di un illustratore italiano.
Chi è Antonio Pronostico visto da Antonio Pronostico?
Posso dirvi chi è Antonio Pronostico visto da Antonio Sileo, perché in realtà «Pronostico» è il mio cognome d’arte.
Quando all’università ho iniziato a disegnare, ho deciso di trovare uno pseudonimo che mi accompagnasse in questo percorso, da un lato perché ho iniziato a conoscere disegnatori con dei «nomi simpatici» e dall’altro perché volevo separare quello che c’era stato fino allora da questo nuovo percorso.
Quindi Antonio Pronostico è la parte più fantasiosa, onirica e a volte sfacciata rispetto a un timido, riservato e malinconico Antonio Sileo.
Dalla laurea in Disegno Industriale all’illustrazione, il tuo passo non è stato tanto breve. Come ci sei arrivato?
Disegno Industriale è stata l’alternativa a un test d’ingresso alla facoltà di Architettura non passato. Da lì è iniziato un percorso interessante perché alternavo lo studio delle arti visive allo studio del disegno da autodidatta. Questo è un percorso su due binari che per me è obbligatorio, una relazione equilibrata, una storia d’amore bellissima.
La grafica mette le basi e ordina il caos generato, in questo caso, dallo spirito libero delle matite.
Il tuo stile è riconoscibile: tratti lineari e cromatismi netti in cui giochi con i pastelli e le ombre. Da dove nasce questo marchio di fabbrica?
Nasce, forse, dal modo in cui mi piace tradurre le cose che osservo e mostrarle. Da un punto di vista tecnico mi piace molto far emergere un’immagine attraverso le forme e il colore, con l’aiuto minimo di un tratto più netto che delinea una figura. Questo aumenta la percezione delle cose per chi vede un’immagine.
Caterina è la tua illustrazione che stiamo usando per la nostra call di racconti. Senza svelare troppo e soffocare l’ispirazione degli autori, ci racconti solo com’è nata e in che periodo l’hai illustrata?
Caterina è una serie di illustrazioni realizzate durante il lockdown nei 45mq in cui vivo con il mio più grande amore, Caterina.
Illustratore e…? Da quando hai iniziato la professione hai mai affiancato qualche altro lavoretto per tirare avanti? Si può, oggi, pensare di vivere solo di progetti creativi?
Inizialmente affiancavo lavoretti di grafica alle illustrazioni, perché erano i lavori che più facilmente riuscivo a trovare. Ora mi chiamano per fare l’illustratore, fortunatamente perché non sono un bravo grafico. Secondo me si può certamente vivere solo di progetti creativi se questi hanno un forte ruolo nella tua vita. Tutto quello che ruota intorno a un fattore economico diventa un problema risolvibile.
Cosa vuol dire essere illustratori oggi? Come si arriva a illustrare per grandi riviste come «Left» o «L’Espresso»?
Questa è una domanda da fare più agli art director delle riviste che selezionano gli illustratori. Penso che ogni AD ricerchi l’illustratore giusto da chiamare per la propria visione e per il proprio progetto grafico.
In questo caso l’illustratore editoriale ha un ruolo preciso rispetto a qualsiasi altro disegnatore. C’è differenza tra una copertina, un articolo illustrato per una rivista rispetto a un manifesto, un libro illustrato o un fumetto. Ci sono illustratori bravissimi che non vengono chiamati dalle riviste, e proprio questo secondo me dimostra che la rivista non è un traguardo necessariamente da raggiungere.
Tre grandi illustratori che sono stati d’ispirazione per il tuo percorso e perché.
Ce ne sono stati, ce ne sono e sicuramente ce ne saranno, perché il confronto con altri artisti è importante per ogni percorso artistico. Non ci sarebbero stati i Beatles senza Elvis e così via.
Se devo sceglierne tre direi Andrea Pazienza, Lorenzo Mattotti e Ferenc Pintér.
Pazienza perché mi ha fatto iniziare a disegnare, Mattotti perché mi ha fatto uscire dal tratto underground e Pintér perché mi ha ricordato che anche nella pittura è importante la grafica.
Illustratori si nasce o si diventa? Cosa ne pensi del valore delle scuole di illustrazione e fumetto e chi dovrebbe frequentarle?
Dalla mia esperienza posso dire che illustratori si diventa, perché non sono nato illustratore. Ho iniziato a disegnare a 19 anni e solo disegnando ogni giorno per 16 anni sono arrivato a essere un illustratore.
Ultimamente c’è un’attenzione crescente verso l’uso dell’illustrazione sia per copertine di libri sia per riviste. Qual è il motivo secondo te?
È un motivo culturale. Settanta anni fa eravamo molto più avanti e attenti rispetto a oggi per quanto riguarda il disegno legato alle riviste, al design e alla pubblicità. Penso però che siamo ancora lontani da un ritorno, perché quando dico che sono un illustratore percepisco che questo mestiere ancora non viene visto come una professione.
C’è qualcosa che non ti ho chiesto e che volevi dirmi?
Volevo dirvi che nell’illustrazione è molto importante il testo, anche quando non c’è, o meglio, non si vede. È una cosa che sto capendo ultimamente, grazie al fumetto; e ho capito pure che lavorare anche solo con il segno fa sì che le parole giochino un ruolo importante per l’illustratore.
In questo caso sono molto contento che, nel vostro progetto, al contrario, si parta da un’immagine per scrivere un racconto.
A cura di Antonella Dilorenzo