Vino caldo: un racconto di Alfons Muzhani

 Vino caldo: un racconto di Alfons Muzhani

Illustrazione di Vecchia Jane

Stavo rubando qualche moneta a mia moglie mentre era in bagno. La borsa è caduta a terra. L’ho raccolta in maniera meccanica. È stato in quel momento che ho smesso di preoccuparmi di trovare un lavoro. Il non-sentimento che avevo battezzato come «principio di depressione» ha lasciato il posto a una curiosità dal carattere decisamente autolesionistico. Quanto posso peggiorare?

 

Oggi è il compleanno di mia moglie e sono di nuovo ubriaco. Lei starà dormendo. Io ho appena terminato l’ultimo cartone di vino e sono al parco. Fa molto caldo e devo pisciare. Lascio il cartone disteso sulla panchina e mi alzo con fatica. Mi avvicino a un albero. Lo tiro fuori. Il fumo prodotto dal contatto col terriccio appanna per un momento la mia vista, poi noto che migliaia di formiche scappano in ogni direzione. Alcune si avventano sui miei sandali e si infilano tra le dita, altre salgono sull’albero. In entrambi i casi le annego con il getto. A qualche metro da me appare un meticcio che si mette a pisciare. Il suo padrone ha una polo arancione infilata nei bermuda. Appena lo guardo, si volta verso il cane. Finché non mi ero accorto di lui non aveva bisogno di fare finta di non vedermi. Per un attimo provo a pensare a una battuta da fare sul fatto che io e il suo cane pisciamo sullo stesso prato. Ma poi mi trattengo. Non so se non dico nulla perché non mi interessa fare lo scemo o se perché non mi viene in mente nulla di divertente. Ripenso a quando ero studente e alle pisciate in giro con qualche amico. Ridevo, ero determinato, stronzo. Ero attivo. La stessa persona che ora ha finito di pisciare al parco sotto casa e ha ancora il cazzo di fuori.

Il cane e l’uomo se ne vanno. Lo rimetto dentro e mi avvio.

La casa è al buio. Probabilmente sveglio mia moglie nel rientrare, ma nessuno dei due saluta. Guardo il televisore spento e aspetto di addormentarmi, per l’ultima notte con un tetto.

Mia moglie se n’è andata stamattina. «Ti saluto» ha detto, racchiudendo in due parole nove anni di relazione. Non so se abbia trovato un’altra casa o se si farà ospitare da qualche amica.

Io non ho cercato un posto in cui stare. Non credo esista.

Lascio il mazzo di chiavi sul tavolo della cucina ed esco di casa con la distrazione di un giorno qualsiasi.

Il cielo è coperto e la città è viva. Passeggio fino in centro, poi apro il portafogli. I miei averi non arrivano a quattro euro. Forse sarebbe stato il caso di pianificare un po’ la giornata. Pensare a come chiedere l’elemosina, dove chiederla o roba simile. Devo mettermi a elemosinare a quarant’anni. La frase, che ripeto più volte, non mi dice nulla. Dovrebbe? Forse non dovrei sorvolare sulla cosa. Ma la priorità è procurarmi il vino e, ovviamente, mangiare.

Ragiono sul fatto che non ho pratica come barbone, quindi è inutile mettersi a chiedere monete già da oggi. Gli spiccioli che ho li conservo per il vino. Il cibo lo andrò a rubare in qualche alimentari.

 

Nella prima occasione in cui mi sono comportato da ladro ero un bambino ed ero in visita da alcuni parenti insieme ai miei genitori. Dopo che mi fu offerto un cioccolatino da un piattino a centro tavola, mi venne un’irrefrenabile voglia di averne un altro. Mi imbarazzava però chiederlo interrompendo degli adulti che parlavano di chissà cosa. Quindi optai per una lenta manovra di avvicinamento, prima al tavolo, giocherellando con le mani, poi della mano stessa fino al contenitore di cioccolatini. Lentamente. Presi un cioccolatino e la proprietaria di casa disse che potevo averne quanti ne volevo. Mia madre si imbarazzò moltissimo, mio padre mi disse che le cose andavano chieste e non c’era vergogna a farlo. Al ritorno, mi spiegarono qualcosa con molta serietà. Non ricordo cosa mi dissero, ma ricordo bene che mi vergognavo poco. Sentivo di dovermi sentire più in colpa, più sporco. Quello fu il mio primo furto, e lo rivivo adesso che sto per rubare cibo e ho quarant’anni.

Entro in un discount. È sporco e disordinato. L’unica cassiera presente ha la faccia deperita. Il cartellino con il nome «Sonia» le ciondola dalla maglietta aziendale tutta slabbrata.

La corsia in cui c’è il pane confezionato è poco fornita. Sfilo lo zaino da una spalla, tenendolo solo con l’altra, e apro la zip. Mi abbasso davanti alla confezione che intendo prendere, mi guardo ai lati assicurandomi che non ci sia nessuno e la infilo nello zaino. Mi rialzo con disinvoltura. In fondo alla corsia un bambino mi guarda. Da dov’è sbucato? Una mano adulta a cui è attaccato lo trascina via. Mantiene lo sguardo su di me fino all’ultimo.

Lo scaffale dei vini è pietoso. L’ultima volta che ho scelto un vino in base alla qualità avevo un lavoro. Vedo un bianco a meno di due euro. La bottiglia è a temperatura ambiente.

Giunto alla cassa rivedo il bambino. Pareva stesse aspettando che riapparissi. Mi guarda dritto negli occhi. Stai zitto figlio di troia.

Ho mangiato qualche fetta di pane e ora sto bevendo il vino. Non riesco a immaginare quali saranno le prossime cose che accadranno. Una fresca brezza smorza i miei pensieri. Il sole continua a essere coperto, sono completamente sudato e la città è più viva che mai. Mi serve un bagno. Ho bisogno di un bagno e provo a pensare a come fare. Una pisciata si risolve in maniera semplice. Ma adesso mi serve proprio un bagno. Trovo un bar ed entro. Mi dicono che il bagno è solo per i clienti e non me lo posso permettere. Esco di corsa e cerco un altro posto. Un bar o una struttura che abbia un bagno accessibile. Cazzo. Inverosimile che non abbia previsto una necessità come questa. Dove faccio la merda? La merda. La merda. La merda. Per la prima volta dopo tanto tempo ritrovo il sentimento della preoccupazione. L’ansia. Mi scappa sempre più. Rifletto sul fermarmi in un vicolo e fregarmene se qualcuno mi guarda. Ma torna a rompere i coglioni un altro sentimento che era in pensione. La vergogna. Il pensiero di essere guardato mentre faccio la merda sotto il sole in pieno centro mi irrigidisce. Mi avvio correndo verso la mia ex casa. L’unica cosa che mi viene in mente è il parco. Ansimo, mi dispero. Devo fare la merda e non ho un bagno. Arrivo al parco. Entro correndo e mi dirigo verso un albero. Mi accovaccio e mi poggio lateralmente all’albero. Faccio la merda. Esce all’istante, tutta insieme, compatta. Non trattengo più nemmeno il gemito di sollievo. La mente si calma. Era solo un’urgenza fisica. Sento le gocce di sudore sulla fronte che si rinfrescano. Provo piacere. Davanti a me rivedo il signore con il meticcio e la polo. Fa finta di non vedermi anche stavolta, ma con più fatica. Il cane invece mi fissa. Anche lui fa la merda. Per qualche strana ragione lo paragono al bambino del discount. Mi rivesto e prendo posto su una panchina. Sfilo la bottiglia di vino e riprendo a bere. Il signore trascina via il cane, che però fa resistenza, tenendo il muso nella mia direzione. Che cazzo ha da guardare?

 

Alfons Muzhani

Blam

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