Cosa vuol dire prendersi cura di chi è ipocondriaco? «Un passo» è il racconto di Lavinia Benincampi

 Cosa vuol dire prendersi cura di chi è ipocondriaco? «Un passo» è il racconto di Lavinia Benincampi

Illustrazione di Monica Alletto

Varco la soglia di casa da sola. «Sono io» gli dico. «Ciao» mi risponde. È seduto sul divano, lo sguardo perso che mi cerca, la vestaglia a quadretti verdi e blu che copre quel suo bel corpo. Lo fisso. Vorrei che i miei occhi non mi tradissero, che rimassero dolci o al limite neutrali, ma lui distoglie subito i suoi e io capisco che ha paura.

«Togli le scarpe» mi dice. Conosco bene il rigido elenco di regole cui devo attenermi al mio rientro a casa: togliere le scarpe, metterle nei sacchetti, lavare le mani, il viso, disinfettare tutto e cambiarmi i vestiti. Dopo il rito di purificazione dalla vita-fuori-di-qui, posso avvicinarmi a lui, baciarlo.

Giovanni svolge un’intensa attività intellettuale sul nostro divano. Legge di tutto. Da poco ha scoperto l’antropologia astronomica. Si tratta di studiare il cielo dal punto di vista delle civiltà antiche, capire quello che pensavano del cielo migliaia di anni fa o giù di lì. Mi parla dei Maya e dei moti del pianeta Venere. Legge pure molta poesia, ora Dickinson. E naturalmente, la filosofia. La sua fissa è l’idealismo tedesco: tesi, antitesi, sintesi; la relazione tra pensiero ed essere. Ne parliamo molto.

I suoi rituali sono più estremi di quelli che impone a me, ha fissato il timer sul telefono così si ricorda di lavare le mani ogni ora, si cambia tutti i giorni, pulisce ogni cosa che non appartiene alla casa. Qui siamo tutti un po’ estranei, tutti potenziali nemici. Il rapporto con i libri è complicato, devo comprarglieli in libreria perché è meglio che in biblioteca, poi lui pensa a disinfettarli e rovina tutte le copertine.

Non mi è permesso cucinare, è lui che sa a che temperatura i batteri muoiono, come lavare via la sporcizia dalla verdura, ecc. In realtà ormai lo saprei anche io, ma non mi permette di fare niente. Così me ne sto seduta mentre lui cucina. «Avrei voluto laurearmi in Astrofisica» mi dice. Gli dico che è sempre in tempo. «No, davvero, non ci capisco molto, ma è bellissimo pensare che ci sia una relazione tra noi e il cielo.» «Volevi fare l’indovino!» gli dico. «Sì, per sapere certe cose in anticipo.» Mi stringe da dietro e mi dà un bacio. Un vento caldo mi sale sulle guance. «Non sono sciocchezze! Un maya qualunque, un egizio, un babilonese, tutti lo pensavano.» «E oggi che c’è nel cielo?» gli chiedo. «Luna a metà, forse si vedrà Venere.»

Decido che voglio affrontare il discorso: «Sai cosa accade invece stasera, sulla Terra?». Lui rimane in silenzio. «C’è quella festa a casa di Domizia. Avevi detto che saremmo andati.» Giovanni si innervosisce, inizia a muoversi tra i fornelli e il tavolo, taglia del prezzemolo che non ci serve a niente e dice: «Aspetta, finisco qui». Irrompe il suono del timer, un’ora è passata, deve lavarsi le mani e corre in bagno.

Ci sediamo a tavola. Pasta con broccoli, aglio e peperoncino, buonissima. «Morbido come un massacro di soli, trucidati dalle sciabole della notte» recito. «Cos’è?» mi chiede. «Una cosa che ha scritto Emily Dickinson, penso descriva un tramonto, è senza titolo.» «Bellissimo!» Giovanni abbandona la tavola e corre a trascrivere la citazione su un foglio. «Forse parlava dell’apparizione di Venere» gli dico. Lui mi guarda e mi sorride come fa un bambino di fronte a un cono di gelato. Poi si disinfetta, perché ha toccato la penna. Restiamo in silenzio, so che vorrebbe dirmi che non è colpa sua, e io non voglio che lo faccia, ma non è nemmeno colpa mia. Mi dico che sono stupida a tenere tanto alla festa di Domizia, lui vuole ricordare le parole di Emily, credere a un universo animato.

«Ho letto un altro verso» mi dice. «Recita così: a volte si vuole bene al proprio dolore come a un amante che ti tradisce. Mi sembra vero. A te?»

«Giovanni io voglio che tu venga stasera.» «Non ce la faccio, Marta.» «Pensi che non uscirai mai più da questa casa?» «Marta, ti prego.» «Ma che vita è questa?» «Perché, cosa ti manca?» «Mi manca varcare quella porta con te!» «Ma non è bello quello che abbiamo qui?» lo urla. Gli rispondo che noi leggiamo libri, guardiamo film, che in verità la vita la immaginiamo soltanto. Lo faccio quasi pentendomi. «Marta, ti prego, io non ce la faccio.» «Ti prometto che non prenderai nessuna malattia da Domizia» gli dico. «Non è così facile.» «Ti prego.» «Non me lo chiedere, basta.»

Lui ha le lacrime agli occhi, io sono rossa di rabbia. Stasera mi vedranno sola, come sempre, e a lui lo chiameranno pazzo alle mie spalle. «Perché mi hai detto che saresti venuto?» «Perché sapevo che era importante per te.» «Mi hai mentito.» «No, cioè, sì. Scusa.» Si mette la faccia tra le mani, porta le ginocchia al mento. Quando vuole concludere la conversazione fa queste cose da bambino, e a me fa un effetto strano. Ha trent’anni, è un editor, è bravo nel suo lavoro. È la persona più intelligente che conosca, ma ora mi sembra solo piccolo. Mi avvicino a lui e lo avvolgo in un abbraccio.

«Altro che idealismo tedesco» dice guardandomi.

«Non si può far filosofia su tutto.»

Giovanni si scioglie da me, si alza. Io rimango seduta al tavolo e mi sento perduta non so dove. Lui sparecchia e pulisce tutto, dopodiché afferra il suo libro sulle stelle e si rimette sul divano a leggere in vestaglia. Discorso archiviato. Il mio senso di impotenza mi rende accondiscendente o forse è il senso di colpa, insomma: vado a farmi una doccia. A volte penso che se lo amassi di più, se lo amassi meglio, lui guarirebbe. L’acqua calda scivola sul mio corpo, ma un’ondata di calore proviene dall’interno: il senso di colpa si mischia alla rabbia che provo se penso che non c’entro nulla con tutto questo, che pago le conseguenze di una cosa che in fondo non mi riguarda affatto. Nuda sotto la doccia, la stessa idea di pulirmi mi stanca, vorrei non doverlo fare più. Mi viene da piangere ma non piango. Guardo gli shampoo, i bagnoschiuma, i disinfettanti, e li odio, li odio come non pensavo potessi arrivare a odiare. Esco dalla doccia, mi asciugo, mi vesto. Vado verso Giovanni con un nodo in gola. Lui alza gli occhi dal libro: «Te ne vai?».

«Sì.» Mi dirigo verso la porta, mi infilo le scarpe e vado a prendere aria.

La casa di Domizia è tutto uno scintillio. Luci colorate verso il soffitto, abiti luminosi, candele dappertutto. Nessuno mi domanda di Giovanni, la verità è che nessuno si aspetta più che lui ci sia. Io ricevo molti complimenti, mi dicono che sono bella, che sto bene. Mi offrono da bere e inizio persino a divertirmi; niente Maya, Dickinson, Hegel, più sei mai stata a New York, dove ti piacerebbe vivere, come sarebbe il mondo se gli animali parlassero. Musica pop. Un ragazzo bassino con un papillon mi chiede di ballare, lo faccio. Mi prende per le mani, fa una giravolta, poi si ferma e beve dal mio bicchiere. Arriva l’amico, sta fumando, ci offre la sigaretta, accettiamo. Quel filtro passa tra le nostre bocche, a nessuno frega nulla, tutti hanno coraggio. Mi diverto, poi penso che sarebbe un disastro se tornassi a casa malata; ma sono così felice che qui non ci siano vestaglie a quadretti e insalate disinfettate che scaccio subito il pensiero. C’è invece Domizia con il suo collier pacchiano, che si struscia addosso a uno che non ho mai visto e penso neanche lei. Rimango a ballare fino a tardi. Alla fine della festa decido di tornare a casa soltanto per prendere le mie cose, poi andrò dai miei genitori, per una volta dormirò con addosso l’odore di quella nottata.

Una volta arrivata, trovo Giovanni un passo di fronte al portone di casa, vestito di tutto punto con camicia bianca, cravatta azzurra, giacca blu.

«Ciao» mi dice.

«Ciao» gli rispondo, con una voce che non sembra mia tanto viene dal cuore. «Che fai?» «Niente.» Lo dice accennando un sorriso. Poi rientriamo in casa insieme. A letto mi dice che in cielo da giù in strada si vedeva Venere. La regola vuole che si debba fare la doccia, dopo quell’amore che penso sia questo: sapere l’altro migliore di quello che è e avere ragione.

 

Lavinia Benincampi

Blam

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