Scoprire le fragilità dei propri genitori: «Tuo padre che piange» è il racconto di Chiara Munda

 Scoprire le fragilità dei propri genitori: «Tuo padre che piange» è il racconto di Chiara Munda

Illustratore AI Luca Moretti

Hai nove anni la prima volta che vedi tuo padre piangere. In realtà è anche l’ultima e sarai sempre grata di questo. Non c’è niente di peggio che vedere tuo padre piangere. Tuo padre non è uno che piange, tuo padre accudisce, lavora, spesso si lamenta e inveisce contro i turisti e gli impianti da sci; ma non piange.

E invece sì, tuo padre piange e piange come piangono tutti. Gli occhi si gonfiano, prima diventano lucidi, poi sgorgano le lacrime e quell’omone con la barba e l’espressione burbera si trasforma in una fontana. Il respiro si fa affannato e il volto si deforma. Siamo tutti brutti quando piangiamo.

L’anno prima Bruno è stato operato, la diagnosi era tumore alla prostata. Il veterinario che gli ha fatto l’anestesia si è complimentato con tuo padre; «È raro,» ha detto, «che un cane sia tenuto così bene» e tuo padre ha sorriso perché il dottore si aspettava che sorridesse. In realtà non credeva di aver alcun merito, Bruno è un membro della famiglia ed è trattato come tale. È un merito assicurarsi che i propri bambini abbiano un letto in casa e una coperta d’inverno? E allora perché complimentarsi perché Bruno ha la sua cuccia e non passa la vita attaccato a una catena? «C’è un che di offensivo in quei complimenti,» dice tuo padre, «come se tener bene il proprio animale non fosse un dovere. Come se meritassi una medaglia perché non maltratto il mio cane.»

Vi ha raccontato questo appena tornato dalla clinica, ma per aggiungere il resto ha aspettato la cena. Quello che ha detto quella sera a tavola davanti alla minestra di verza è che la massa è stata asportata, ma le metastasi si erano già diffuse attraverso il sistema linfatico: Bruno avrebbe dovuto fare la chemio. Gli vedi gli occhi arrossati e lo senti tirare su col naso; è solo per la minestra troppo calda a cui ha aggiunto il peperoncino, non puoi pensarlo sul punto di piangere. E infatti non piange. Soffoca un colpo di tosse nel pugno e realizzi che non ti eri mai accorta della sua delicatezza: i pantaloni di velluto, i maglioni di lana grossa e gli scarponi da montagna l’avevano sempre nascosta. «Bruno starà male,» dice, e questa volta esplode in un attacco di tosse che lo fa vibrare per un po’. Ma non piange.

L’anno dopo Bruno è dimagrito e affaticato, mangia solo una volta al giorno e tuo padre non lo porta più con voi a fare trekking; si alza piano e si muove lento, sembra che voglia solo dormire; è un cane sbiadito ormai, come il suo pelo. Gli ultimi mesi della sua vita li passa così, accoccolato sul tappeto a respirare sui piedi di tuo padre e dormire e alzarsi lento. Finché un giorno non si alza più. Ed è allora che tuo padre piange come una fontana, il respiro soffocato dai singhiozzi e le lacrime che gli inzuppano la barba.

Anche tua mamma piange, ma non ti fa quest’impressione; Amedeo dall’alto dei suoi quindici anni fa il grande, dice che lo sapeva, che prima o poi doveva succedere e almeno adesso Bruno, il nostro Bruno, ha smesso di soffrire. Tu provi una forma di dolore nuovo, un dolore che non avevi mai conosciuto che ti ferma il sangue e il respiro.

Quel pomeriggio tuo padre si asciugherà le lacrime, prenderà una vanga e scaverà una fossa in giardino. Amedeo, sempre al suo fianco, lo aiuterà con la pala. Seppelliranno Bruno, e tua madre pianterà una croce. Dirà una preghiera per lui e, forse, un’altra speciale per suo marito.

La settimana dopo Amedeo si presenterà a casa con un cucciolo di spinone di nome Luna, un guinzaglio e una cuccia nuovi. Forse avrà salvato la vita a tuo padre e non lo saprà mai.

 

Chiara Munda

Blam

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