Di certi ricordi che si sgretolano e non lasciano che vuoti: «Sul crollo del Monte della Madonna» è il racconto di Marcello Guardo

Illustrazione di Jacopo Ricci
Quando è venuto giù il Monte della Madonna avevo otto anni. Ricordo di quell’età l’odore del negozio di articoli per la pesca di Santo Scandurra.
«Possiamo andare a pesca?» ho chiesto una sera passandoci davanti.
«Quando?» ha chiesto mio padre.
«Domani.»
L’auto si è fermata. Siamo andati a prendere l’esca viva e i piombi, che non si sa perché non trovavamo mai in casa e li si doveva ricomprare ogni volta. Come sempre, per il tempo che mi divideva dall’alba, non ho pensato che alla pesca. Ho sognato di pescare finché mio padre mi ha svegliato per andare alla galleria. Eravamo come soldati, con le canne e la borsa con tutto l’occorrente, e con il secchiello rosso e le molliche di pane che ci eravamo portati da casa, e anche dei panini con la Nutella.
Abbiamo camminato seguendo le nostre ombre sul lungomare. Le strade erano vuote e pareva che io e mio padre fossimo gli unici a respirare l’aria mobile e fresca. Quando abbiamo raggiunto la galleria, il sole si era affacciato dietro Capo D’Orlando, e io mi sono fermato a guardarlo mentre mio padre già spariva in fondo alle scale che dalla strada conducevano agli scogli. Abbiamo scelto quello che più si sporgeva sull’acqua, poi ci siamo arrampicati al buio con entrambe le mani piene.
«Vuoi darmi il secchiello?» mi ha chiesto mio padre, e io ho scosso il ciuffo per dire di no. I gabbiani si minacciavano tra loro e parevano portare l’odore di sughero, limone e legno bagnato dal porticciolo dietro la galleria. Mio padre distrattamente assemblava le canne da pesca. Io ho guardato per un po’ il mare, poi ho visto l’amo e mi è venuta la prescia di toccarlo. E più mio padre lo maneggiava più mi piaceva mio padre, e volevo maneggiare anch’io un amo.
«Posso farlo io?» ho chiesto.
«No, Miche’. Vallo a riempire» mi ha detto indicando il secchiello. Non ne avevo voglia, per cui sono tornato a guardare il mare, più luminoso con lo schiudersi del sole su San Gregorio. Un fischio è esploso dal porticciolo e una mezza dozzina di piccole barche da pesca si è lanciata verso il largo. Sentivo che la vita cominciava, così mi sono deciso a riempire il secchiello. Ho tolto le ciabattine e mi sono calato dallo scoglio. L’acqua fredda mi ha ingoiato i piedi e ho avuto la sensazione di sognare ancora, perché il mare lì non c’era quando eravamo arrivati. Ho riempito il secchiello per metà e sono rimontato sullo scoglio mentre mio padre tendeva la canna che aveva finito di preparare.
«Mi dici come si lanciava?» gli ho chiesto.
«Aspetta che faccio la mia.»
«Dai» ho cantato.
Allora sospirando ha poggiato in equilibrio la sua canna e ha preso dalla grande borsa la scatola coi vermi. Facevano impressione, tutti aggrovigliati. Ne ha preso uno con due dita, poi ha raggiunto l’amo e l’ha passato attraverso il corpo del verme. Mentre mi mostrava la posizione, io lo ascoltavo e lo amavo da morire.
Ho lanciato e ritirato la lenza col mulinello. Guardavo mio padre seduto accanto a me che faceva scattare i pezzi della sua canna. Mi sono voltato verso i grandi scogli bruni, compatti come meteore, carezzati dalle onde, e indietro le auto che erano sempre di più, e un cane in lontananza. Il bagnasciuga raggiungeva quasi le scale.
Due volte mio padre mi ha fatto notare che il mio verme era affogato e che lo dovevo slamare e sostituire con uno vivo. Ho preso un verme in mezzo alla massa brulicante nella scatola di plastica. Ho sentito la sua crosta dura comprimersi e l’interno coagularsi contro le mie dita. Mi è parso che volesse mordermi e l’ho visto svanire sotto lo spesso vetro d’acqua.
«Tu pesci ne vedi?» ho chiesto.
Lui è rimasto in silenzio a guardare la volta buia sotto i suoi piedi enormi. Era come se sentisse la responsabilità di quella mancanza, come avesse dimenticato di portarli.
Il mare s’ingrossava sempre più d’aria: il nostro scoglio si era mutato in un isolotto poco più grande di quello della Formica e anche la scaletta che risaliva fino alla strada era quasi del tutto sommersa.
«Perché è così scuro?» ho chiesto dopo che un’onda mi ha leccato il polpaccio con la sua lingua salmastra.
«Perché è mosso.»
Io mi guardavo intorno e intanto cercavo di non farmi mordere dal mare. Alle mie spalle la strada, ora silenziosa, era illuminata dal mattino ormai fatto; dietro c’era il Monte della Madonna.
«La montagna» ho detto, chissà perché.
«Non è una montagna» ha riso. «Gli orlandini la chiamano montagna perché non ne hanno mai vista una vera.»
Anche se su di noi c’era sole, il mare attorno allo scoglio ha cominciato a sputacchiare in modo così violento che pareva grandinasse. Qualcosa di pesante mi ha colpito sul collo: era un masculìno, un pesciùzzo. Come lui, cento e mille altri pesci saltavano sempre più in alto intorno a noi e io, che prima mi ero un po’ preso di spavento, adesso urlavo di gioia. Mio padre teneva in alto il capo, pronto a difendermi dai gabbiani, mentre con il secchiello ridevo ad acchiappare al volo alici, sardine, pettini e pure un sauro.
«C’è un grande predatore» ha detto.
«Nell’acqua o nel cielo?»
Prima che potesse rispondermi, un tuono ha scosso l’acqua, come se le nerissime nubi ingrossate nel fondale scatenassero una tempesta sotto i nostri piedi. Lo scoglio mi ha strattonato facendomi perdere l’equilibrio; a quattro zampe, col viso vicino a una macchia di lippo giallo, mi sono accorto che il poco muricciolo che divideva il mare dalla strada si era sfatto e che anche la strada si frantumava in croste senza sacramento.
Il mare si sgonfiava come un gommone bucato gorgogliando e crepitando mentre le spaccature si arrampicavano sul monte e i fichidindia impallidivano al sole sempre più alto, sempre più caldo. Mio padre mi stringeva in un abbraccio sudato che mi inzuppava i capelli. Ricordo l’odore acido della sua paura mentre osservavo il Monte della Madonna spogliarsi, zolla per zolla, muricciolo per muricciolo, aiuola per aiuola. Le scale perdevano le rampe una in fila all’altra tenendosi per mano come decorazioni di carta velina. Del crollo del Monte della Madonna, ho il ricordo di una mattina di pesca, dell’amo e del verme, e del secchio rosso e dei pesci che ci saltavano dentro come a volersi far prendere. Del resto rimane solo un vuoto alla base della strada della galleria, un pezzo di cielo in più riempito ogni tanto da stormi di gabbiani in rotta.
Marcello Guardo