Cercare sé stessi in un passato senza ritorno: «Stephen’s Green» è il racconto di Claudio Bellon

 Cercare sé stessi in un passato senza ritorno: «Stephen’s Green» è il racconto di Claudio Bellon

Illustrazione di Monica Alletto

Non avevo voglia di andare a lezione né di incontrare nessuno. Mi sono infilato il cappotto e il cappuccio anche se non pioveva. Ho assunto mezza dose di funghi e ho passeggiato fino al centro commerciale di Stephen’s Green, da solo, di pomeriggio. All’ultimo piano del centro commerciale non ci sono negozi e puoi goderti finalmente il silenzio, mentre dall’alto osservi le persone ai piani di sotto che brulicano e corrono e sono solo il ricordo di un rumore.

L’ultimo piano è occupato da un gallerista che espone opere di artisti irlandesi. Il bello di quando sei stonato è che puoi soffermarti per ore a osservare i dipinti che si muovono, i colori che si mescolano tra loro e sembrano venirti incontro. È come se nuotassi per un tempo incalcolabile tra le tempere per poi sciogliermi dolcemente sul pavimento con al centro del petto un calore sublime: ci sono così tante emozioni da descrivere al mondo che non saprei da che punto partire.

Il mio preferito è un dipinto en plein air di un pittore che si chiama Norman Teeling. La prospettiva parte da una fermata dell’autobus in Wellington Quay. La protagonista è una ragazza che sta attraversando la strada. Indossa jeans attillati che si allargano verso le caviglie. Ha il passo deciso, nonostante cammini distratta, con il cellulare tra le mani e la borsa a tracollo. La sua figura mi fa venire in mente Alice. Anzi, nel mio sguardo è proprio lei. Un mattino in cui ha deciso di prendersi del tempo per sé, forse, ascoltando musica chill e passeggiando in cerca di abiti vintage nei negozi di Capel Street e Temple Bar. Oppure è pomeriggio. Un venerdì di drink con il suo gruppo di amiche britanniche, si sono date appuntamento per bere Porn Star Martini e fumare sigarette sul terrazzo soleggiato di un bar in Camden Street.

La primavera di due anni fa. La aspettavo nella sua camera mentre si preparava per il Trinity College Ball. Seduto sul suo letto con la schiena appoggiata alla finestra, il sole che inonda la stanza di luce e intrappola i pulviscoli nei suoi raggi come pesci in una nassa. Ho il telefono tra l’orecchio e la spalla, e un libro aperto sulle gambe; cerco di studiare e ordinare cibo cinese, ma la verità è che non faccio altro che osservare lei mentre si prepara, mentre è indecisa su che pantaloni scegliere, su quale rossetto spalmarsi sulle labbra. Con i capelli bagnati si passa la matita intorno agli occhi azzurri, di un azzurro antartico, mitico.

Non ho mai detto a nessuno come mi sono sentito in intimità con lei nell’istante in cui mi ha reso l’unico testimone della sua quotidianità. Più della volta in cui ci siamo dati quel bacio. Più di quando i nostri tatti resi ipersensibili dall’ecstasy si sono sfiorati nella notte di Capodanno, mentre i Mystery & Mist solleticavano i nostri neurotrasmettitori con Psychic Harmony.

Nello specchio di quella stanza ci siamo io e lei, ancora ventenni, ancora con tutti i sogni legati al corpo. Se fossimo rimasti lì, ne sono sicuro, avremmo avuto vent’anni per sempre. E da che ero intero ho sentito qualcosa dentro spezzarsi, gli occhi inumidirsi, per l’amore che non è euforia ma nostalgia; un momento di distrazione.

 

Claudio Bellon

Blam

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