Cercare sé stessi negli altri e ritrovarsi in modo nuovo: Spezzagambe è il racconto di Emma Cori
Entrai in cucina e lui era mia madre.
Aveva un cucchiaio di legno in mano e rimestava pezzetti di verdura in una padella. La stanza era soffocante, l’odore del cibo cotto mi arrivava fino in gola. Tirai verso di me una delle sedie e mi sedetti a tavola.
Quando lui mi sentì, si voltò: aveva le rughe d’espressione di mia madre, il suo naso un po’ storto, la sua pelle piena di nei.
«Hai visto? Ho preparato i peperoni in agrodolce, come piacciono a te.»
«Grazie, mamma.»
«Hai fame?»
Non avevo fame.
«Sì, tanto» risposi.
Mia madre mi servì una generosa porzione di peperoni, e da un’altra pentola aggiunse del riso bianco. Riempì anche il suo piatto, poi si sedette. Iniziai a mangiare mentre mia madre mi guardava.
Il riso era insipido e i peperoni poco cotti. Ma lui era mia madre, mi aveva dedicato più tempo e amore di quanto meritassi, perciò mi costrinsi a mangiare con gusto.
«È buono?»
«Buonissimo, mamma. Davvero saporito.»
Mi guardò mangiare ancora per un attimo, poi prese una cucchiaiata di riso e verdura e se la ficcò in bocca. Masticò piano.
«Saporito?»
Capii che non ero riuscita a convincerlo, ma ormai era troppo tardi per smettere di fingere. Forse, però, potevo negoziare.
«Molto. Solo i peperoni sono un filo crudi. Per il resto è ottimo.»
Mia madre non disse nulla. Deglutì, appoggiò il cucchiaio e spinse il piatto lontano da sé sul tavolo. Quando parlò di nuovo la sua voce era dura.
«Invece fa schifo, non sa di niente. Perché mi dici bugie?»
Smisi di masticare e alzai gli occhi su di lui. Era ancora mia madre, si era preso cura di me e le bugie erano il mio modo di ricambiare la sua cura.
«Perché ti voglio bene.»
Mi aspettavo che rispondesse che mi voleva bene anche lui, che capiva come mai avevo mentito; invece mi guardò ancora, e vidi le iridi castane di mia madre schiarirsi e ricolorarsi. Poi lui, che era mia madre ma mi mostrava i suoi occhi fiammeggianti, mi chiese:
«Ti è passato quel dolore che avevi?».
«Veramente no.»
«Fammi un po’ vedere.»
Mi spostai di lato sulla sedia e gli mostrai le gambe: le sentivo pesanti e piene di dolore, gonfie in tutte le giunture. Mia madre mi circondò le ginocchia con le mani e premette forte.
«Così però mi fai male.»
«Se ti fa male vuol dire che sta funzionando.»
Non ero sicura che mi stesse aiutando, ma pensai che se non avevo reso felice mia madre mentendo sul cibo, potevo mentire su quanto dolore sentivo. Perciò dissi solo:
«Grazie, mamma».
Lui tornò a sorridermi, e si avvicinò per baciarmi. Non vedevo più i suoi occhi selvatici, e quando le sue labbra toccarono le mie sentii il profumo della pelle di mia madre.
Entrai in salotto e lui era mio padre. Mio padre era la persona più intelligente che conoscevo, la prima di cui desideravo l’approvazione. Era seduto sul divano a leggere, e mi accorsi che era lui perché ai piedi portava logore scarpe da ginnastica bianche. Gli erano sempre piaciute le filosofie dense ma sintetiche, i romanzi lunghi ma pirotecnici. La mia più grande paura era che smettesse di dirmi che ero brava.
«Cosa stai leggendo?» chiesi.
Mio padre mi mostrò la copertina.
«Leggilo anche tu,» disse, «così poi ne parliamo.»
Mi piaceva parlare con lui delle cose importanti, perciò fui felice. Le gambe mi dolevano più di prima, così mi sedetti sul divano. Lui mi cinse le spalle con un braccio.
«Ma tu mi trovi intelligente?» gli chiesi, e la mia voce era piccola piccola, come quella di una bambina. Lui mi sorrise con molta dolcezza.
«Ma certo. Anzi: per quello che vale, ti considero più intelligente di me.»
Sapevo che non era giusto crederci solo perché me lo diceva lui, ma mi scaldava tanto il petto. Mi accoccolai contro il corpo mio padre e chiusi gli occhi. Il suo braccio mi strinse un po’ più forte, e prima di addormentarmi sentii sulla sua spalla l’odore di casa che lui aveva sempre avuto addosso.
Uscii fuori sul balcone e lui era mia sorella.
A malapena riuscivo a camminare, così mi sedetti subito sul pavimento impolverato del balcone. Lui aveva le braccia sottili di mia sorella, le sue dita dalle estremità gonfie, i suoi occhi enormi. Quando appoggiai la schiena al muro mi offrì una sigaretta; avevo smesso, l’accettai.
Io e mia sorella fumammo in silenzio. Capii che lui era triste perché non parlava, ma era mia sorella, e quindi condividevamo lo stesso magone. Io e mia sorella avevamo parecchi anni di differenza, i miei capelli erano mossi e i suoi lisci, i miei occhi erano piccoli e i suoi grandi. Ma era pur sempre mia sorella, e l’amavo perché le sue radici toccavano le mie.
Gli dissi:
«Ti ricordi quando ti ho detto che sei la persona più simile a me che esista, ma anche la più diversa?».
Lui tirò una boccata alla sigaretta, e quando rispose fu con la voce roca di chi è abituato a fumare molto e a parlare poco:
«Me lo ricordo. Ma raccontamelo di nuovo».
«Tu e io siamo come un oggetto e il suo riflesso. Tecnicamente sono la stessa cosa, e può perfino capitare di confonderli. Però si trovano agli antipodi. E non potranno mai sovrapporsi.»
Il sole spuntò da dietro una nuvola e batté dritto sul balcone. I raggi frustarono la pelle di mia sorella, tanto che su braccia e gambe iniziarono a crescerle lunghi peli castani. Quando il viso cominciò a chiazzarsi della sua barba, lui mi disse:
«Ma io non mi voglio sovrapporre a te. Io voglio solo starti vicino».
«Grazie» gli risposi. Mia sorella smise di guardarmi e non disse più nulla e io capii che avevo dato la risposta sbagliata.
Entrai in camera e lui era me.
Volevo trascinarmi fino all’armadio per cambiarmi, e invece mi spogliai davanti allo specchio perché lui potesse vedere.
«Quanto sei bella» pronunciò la mia bocca quando fui nuda.
«Grazie» gli risposi. «Mi piace piacerti.»
«Se solo sapessi quanto mi piaci,» riprese lui, «se solo sapessi cosa vorrei farti.»
L’altra mano risalì per il collo e le spalle e mi toccò teneramente la nuca.
«Cos’è che vorresti farmi?» gli domandai.
«Tante cose brutte,» rispose piano; «e prendermi cura di te.»
Pensai a qualcuno che si prendeva cura di me, e sentii quella tenerezza spezzarmi le gambe per davvero. Caddi a terra di fronte allo specchio.
«Ti piace parlare con me?» mi chiese lui.
«Sì.»
«Ti piace sentirmi vicino?»
«Sì.»
«Ti piace sentirmi dentro di te?»
Questa volta restai zitta perché ci dovevo pensare. Certo che mi piaceva sentirlo dentro di me, ma era doloroso stare lì dentro in due, anche perché non avevo idea di come farlo uscire. Pensai che questo potevo non dirglielo, ma lui era me e quindi lo sapeva già. Stavolta la mia voce era più addolorata.
«Mi dispiace che la pensi in questa maniera. Per me è sempre stato tutto così dolce.»
«Sì,» risposi, «anche per me.»
E lo pensavo davvero.
Mi svegliai nella camera buia. Dalla finestra entrava poca luce e niente aria. Mi sollevai sui gomiti e il materasso umido gemette. Alla mia destra, lui si mosse.
Non lo vedevo, ma non importava: potevo sentire l’ansa dolce dei suoi piedi, la curva commovente della sua schiena, l’incavo straziante della sua nuca. Al centro del letto, in un groviglio di articolazioni e carne, c’erano le nostre gambe: non volevo andare da nessuna parte, ma in ogni caso non avrei potuto.
Mi rimisi sdraiata e mi avvicinai a lui, cercando di non muovere il letto. Come un ragno mi attaccai al suo fianco. Dopo qualche attimo, mi sollevai quel tanto che bastava per salirgli sopra.
Alzai un braccio e lo cinsi, poi mi issai sulla sua schiena fino a coprirlo con tutto il mio peso; le nostre gambe attorcigliate dolevano in modo insopportabile. Mi strinsi forte al suo busto e spinsi, e scoprii che la sua carne era dura all’esterno ma morbidissima dentro.
Forse fui maldestra, forse rumorosa: dopo un attimo lui si svegliò.
Aprii i suoi occhi nell’oscurità.
«Non aver paura» gli sussurrai. «Ormai è fatta.»
Lui deglutì.
«Non ho paura» mormorò.
«Allora dormi» risposi.
Lui chiuse gli occhi e io pensai che parlare e stare una dentro l’altro, per quanto scomodo e doloroso, era davvero bellissimo. Pensai che avrei potuto dirglielo. Ma io ero lui, e quindi lui lo sapeva già.
Emma Cori