Seufòria: un racconto di Marco Tosi
Quando squillò il telefono avevo appena finito il secondo e Sandra aveva iniziato a sparecchiare. Mezz’ora dopo ero in macchina e come d’accordo Pascucci mi richiamò. Lo misi in viva voce.
«Mi scusi se l’ho disturbata a cena, dottore, io non glielo so spiegare, non ci provo neanche, deve venire a vedere lei, anzi, deve venire a sentire. Non credo che… senta, faccia presto per favore, l’aspetto fuori dal Centro.»
La linea era disturbata e tagliai corto. Mentre imboccavo la superstrada chiamai Sandra: «No, Maurizio non mi ha spiegato nulla, fa il misterioso. Si sentiva male e poi dice che non riesce, che devo vedere coi miei occhi. Lo conosci anche tu, sono vent’anni che lavora nel Centro, così non si è comportato mai. No, non spaventato, eccitato sì, allarmato… ecco, allarmato è la parola giusta. Sì, tranquilla, non mi fermo a dormire».
Chiusi la telefonata, presi l’uscita per Seufòria, il piccolo centro abitato in fondo al quale sorgeva l’omonimo istituto per sordomuti, o il Centro, come veniva chiamato da tutti. Il paese aveva preso il nome dalla struttura, o forse era il contrario. Quale che fosse la verità non faceva differenza, il paese e il Centro erano divenute una cosa sola. Dei quaranta dipendenti ero l’unico a non abitare in paese, per volontà di Sandra, e di questo in cuor mio l’avevo ringraziata spesso, ma non era stato difficile convincermi. Non amavo stare in paese. Una volta lasciato il Centro sentivo il bisogno di non incontrare colleghi e pazienti, almeno fino al mattino seguente.
Entrando in paese rallentai. Era già buio, e le strade erano disseminate di dossi per ridurre la velocità, anche se di auto a Seufòria se ne erano viste sempre poche. Quasi tutti gli abitanti si muovevano in bicicletta, percorrendo i pochi chilometri che collegavano le case con il Centro, i negozi e le scuole.
Oltre la prima rotatoria scorsi un piccolo gruppo di persone. Erano tutti in piedi, fermi, all’interno di un piccolo parco giochi, illuminati dal cono di luce di un lampione. Mi avvicinai, con i fari illuminai la scena e passai oltre. Stavano parlando, erano una decina tra uomini e donne, e un paio di bambini. Mi sembrò di riconoscere due giovani pazienti del Centro, ed ebbi la sensazione che stessero partecipando alla conversazione, anzi che fossero loro a parlare, mentre gli altri li ascoltavano. Non era possibile. Pensai a Pascucci, al tono della sua voce.
Raggiunto il centro del paese vidi altri due capannelli di gente, ai lati della piazza. Qui si avvertiva maggiore agitazione, non c’era dubbio. Accelerai e imboccai il viale in salita che portava al Centro. I cipressi che bordavano la strada mi sembrarono più scuri del solito. La luna brillava da dietro la struttura che ora occupava tutta la mia visuale, man mano che mi avvicinavo.
Fermai l’auto e solo allora notai che tutte le finestre erano illuminate, non dormiva nessuno. Quando aprii la portiera e scesi dalla macchina sentii per la prima volta quel suono. Ripensai a Pascucci. No, non era la prima volta, era il rumore di fondo che al telefono copriva con la sua voce. Era il suono che mi era sembrato di sentire attraversando la piazza, solo molto meno forte. Al contrario, quello che ora proveniva dal Centro era assordante. Chiamai Pascucci al cellulare, ma mentre aspettavo che rispondesse lo vidi. Correva verso la sua auto, parcheggiata vicino alla mia. Quando la riconobbe si girò su sé stesso e mi cercò con lo sguardo.
«Non lo so com’è iniziata, non ne ho la più pallida idea. Ero con Malavasi, gli passavo le consegne per la notte, e sentiamo quel rumore forte, nel seminterrato. Io rimango in ufficio e lui scende a vedere. Dopo una mezz’ora torna su e dice che non c’è nulla, è tutto a posto, ma che c’è confusione in mensa, ha una faccia strana, pallida. Entriamo nel salone e stanno tutti lì, in pigiama, ma proprio tutti. E parlano, Gianni, parlano. Sì, hai capito bene, ho detto parlano, ma non si capisce niente. E allora ti chiamo. Malavasi si mette a piangere, non l’avevo mai visto così. L’ho mandato a casa, che dovevo fare.»
In quel momento mi resi conto che anche Pascucci aveva pianto. Aveva gli occhi rossi, i capelli arruffati, si era tolto il camice e la cravatta. Gli proposi di andare a vedere, annuì. Per un attimo pensai di chiamare Sandra, me lo lesse negli occhi: «Prima decidiamo cosa fare. Restare, andare via, chiudere tutto».
Ci avvicinammo alle grandi portefinestre del salone. Il rumore era fortissimo. Quando entrammo nessuno si voltò. Alcuni erano seduti ai tavoli, altri a terra, in cerchio. Allargai lo sguardo. Una ventina dei più giovani giocava a pallone in un angolo della sala. Avevano liberato spazio, spostato tavoli e sedie. Un altro gruppo aveva messo della musica e stava ballando. Una decina dei più piccoli correva in cerchio, ridendo e spintonandosi. Parlavano tutti, e ridevano a crepapelle.
«Ma che lingua… cioè da dove viene? Cos’è?»
Pascucci alzò le spalle, si portò le mani alla testa e si massaggiò le tempie.
«Non ne ho idea, e sicuro non lo sanno neanche loro. Gianni però, ascolta bene, ti sembra una lingua, un idioma, insomma? E se fosse, come e quando lo hanno imparato? Sono decenni che ci lavoriamo… e ora? Guardali, non usano il linguaggio dei segni, neanche per sbaglio. Sembra abbiano cancellato tutto. Poco prima che tu arrivassi, due ragazze hanno preso il microfono della sala e si sono messe a cantare, se si può dire così. Ora sono scese in paese. Ma ripeto, ti sembra una lingua?»
Mi appoggiai a uno dei tavoli, chiusi gli occhi, mi misi in ascolto. Ora riuscivo a definire meglio la sensazione che provavo da quando avevo aperto la portiera dell’auto. Una voliera. Ci trovavamo in una immensa voliera. Cercai con lo sguardo Francesca e Paolo, i due giovani pazienti che avevo seguito con maggior frequenza negli ultimi mesi. Mi parve di scorgerli in fondo al salone, lui in pigiama, lei in tuta da ginnastica, mano nella mano. Lasciai Pascucci e attraversai quella folla confusa, coprendomi le orecchie per limitare il frastuono. Quando li raggiunsi si voltarono a guardarmi, sul viso di entrambi un misto di felicità e di amarezza, come se sapessero già. Mi avvicinai e gli chiesi come stavano, col linguaggio dei segni. Paolo aveva i lunghi capelli biondi spettinati e gli occhi cerchiati di rosso, Francesca si sistemò gli occhiali e gli si avvicinò, come a proteggerlo. Ripetei la mia domanda, poi indicai quella moltitudine urlante e chiesi cos’era accaduto. Paolo cominciò a lacrimare e scosse la testa, Francesca mi guardò e allargò le braccia. Non mi capivano più, l’unico canale di comunicazione con me, Pascucci, Malavasi e il resto del mondo era chiuso, era evidente. Poi Francesca mi si avvicinò, aprì la bocca ed emise un trillo delicatissimo, come non ne avevo mai ascoltati prima. Si fece silenzio intorno, ora ci guardavano tutti. Paolo le strinse i fianchi, mi guardò negli occhi e cinguettò, con forza. Percepii la loro paura, il loro stupore, ma anche la loro gioia. In quel momento Pascucci mi raggiunse, mi tirò con discrezione la manica del camice e mi indicò con un cenno del capo i grandi finestroni del salone, quelli che si affacciavano sul parco. Le finestre erano aperte e decine di uccelli si erano posati sui davanzali, alcuni sbattevano le ali, altri erano fermi, tutti rimanevano in silenzio. Poi dal centro del salone partì un gorgheggio e gradualmente tutti i presenti cominciarono a cantare il proprio verso. Fu allora che gli uccelli spiccarono il volo e cominciarono a volteggiare in cerchio su quella moltitudine umana, in quello che mi sembrò un saluto, un canto di benvenuto.
Marco Tosi
2 Comments
Bello, misterioso! Ti colpisce sin dalle prime righe e non vedi l’ora di capire cosa nasconde. L’ho adorato 🙂
Ma grazie Rita! <3