Cosa succede quando smettiamo di agire e accettiamo tutto in modo passivo? «Sabbia» è il racconto di Raffaele Cars

Illustrazione di Linda Demichelis
Cesare scriveva necrologi. Era questo il suo lavoro. Scrivere dei morti non gli piaceva, ma scrivere dei vivi era anche peggio. Passava tutto il giorno in ufficio alla ricerca di morti illustri, così da potersi sentire anch’egli illustre, credo. Viveva in un bilocale a pochi chilometri dalla città, con le pareti bianche e la staccionata ben in vista. Viveva da solo. Gli faceva compagnia soltanto il suo meticcio dal pelo beige. Si chiamava Cesare, come il suo padrone. Per questo Cesare mi piaceva, perché era strano. E anche se quelli strani non piacciono quasi mai a nessuno, Cesare mi piaceva. Quando entrai al giornale della città nella sezione Musica, tutti mi dissero che c’era un tipo strano, sempre triste, che scriveva necrologi e che non voleva scrivere dei vivi.
Una mattina ero al distributore a prendere un caffè e vedo questo tipo magro, alto nella media, con i capelli neri e corti e un paio di occhiali da vista, e poi una camicia a maniche corte azzurra.
«Auguri per il tuo percorso in questo giornale. Avevamo bisogno di un buon giornalista musicale» disse mentre pigiava su Caffè + Zucchero.
«Ah, grazie. Tu sei?» risposi.
«Cesare, quello dei necrologi.»
Pian piano diventammo amici. Trascorrevamo la pausa pranzo insieme, in silenzio sotto gli alberi del piccolo giardino del nostro giornale, a mangiare un panino e a fumare sigarette. Cesare era fatto modo tutto suo, aveva un bel cervello, solo non andava bene per questo mondo. In ogni caso io e Cesare eravamo diventati davvero amici. Un giorno decidemmo di restare insieme dopo il lavoro.
«Ci facciamo una birra?» chiesi io.
«Non lo so, non bevo spesso» disse Cesare.
Poi acconsentì sospirando come se volesse già tornare a casa ancora prima di uscire. Quando ci ritrovammo dietro a due birre gli chiesi del suo lavoro.
«Come sei finito a scrivere necrologi?»
«Qualcuno deve pur scrivere dei morti.»
«Perché tu?»
«Non l’ho deciso. È successo e basta. Come tutto. Sette miliardi di persone che credono di essere connesse da una qualche energia e che invece si lasciano trascinare dalla marea delle cose» e fece il gesto della marea con la mano.
«Che intendi dire?»
«Che scrivo dei morti perché mi è stato chiesto. Non c’è altro. Non mi è mai stato chiesto di scrivere di cronaca o di musica. A me è stato chiesto di scrivere dei morti. E io ho detto di sì. Perché i morti non possono risponderti, lo sai come la penso. E io voglio essere lasciato in pace.»
«Sì,» risposi io ingoiando un grosso sorso di birra, «io ti lascerei pure in pace se non fosse che sei l’unica persona interessante in quel giornale!» «Ti sembro interessante perché sono strano? Comunque grazie… credo fossero dieci anni che qualcuno non mi diceva qualcosa di carino.»
«E chi era stato l’ultimo?»
«Mia moglie. Eravamo su una spiaggia. Si chiamava: la spiaggia dei ricordi. È poco lontana da qui. Ed era meravigliosa. E il mare era sempre grosso e imponente. La chiamavano così perché i ragazzi se ne andavano su quella spiaggia all’ora del tramonto. E si diceva che chiunque andasse lì durante la morte del sole avrebbe portato dentro di sé il ricordo più importante della sua vita. Mi disse che ero gentile quel pomeriggio, mia moglie. Fu bello sentirglielo dire.»
«Ora dov’è?»
«Non lo so. Se n’è andata.»
«Dove?» chiesi io.
«Non ne ho idea.»
«Perché se n’è andata?»
«È successo e basta.»
«Cesare, le cose non succedono e basta.»
«Invece è proprio così.»
«Che vita è questa?»
«La vita di uno che scrive di morti. Dopo un po’ non ti chiedi più il perché delle cose. Non guardi più la loro forma. Ma soltanto la sostanza. E a proposito, se dovessi morire, vorrei che scrivessi tu il mio necrologio!» fece cin cin con la birra. Eravamo diventati davvero amici io e Cesare, sì.
Per questo, qualche giorno fa, mi ha sorpreso davvero tanto venire a sapere che si era dimesso. «Ma come te ne vai?» ho detto senza neanche salutare entrando nel suo ufficio.
«Sì, mi dispiace, devo andarmene» ha risposto distratto mentre svuotava i cassetti.
«E quando avevi intenzione di dirmelo?»
«Oggi, credo» intanto continuava ad aggiustare le cartelline.
Gli ho chiesto il perché e la risposta è stata che doveva fare una visita importante. Dall’espressione mi sembrava molto sicuro. Non gli avrei fatto cambiare idea. Così poche ore dopo, a fine giornata, ci siamo salutati come se nulla fosse, lui per la sua strada e io per la mia. Mi ha detto solo: «Stai attento». «A cosa?» ho chiesto. «A tutto questo.» La sera quando sono tornato a casa, ho raccontato tutto a mia moglie. Lei ha detto che era normale. Che le persone arrivano in un posto e che poi se ne vanno. «È quello che accade a migliaia di persone ogni giorno, amore.» Ha chiuso il discorso con un piatto di pasta a tavola.
«Ma non è da lui» e ho preso una forchettata.
«In che senso non è da lui?» La luce della cucina era fioca e ci illuminava la testa.
«Che Cesare non è il tipo che in una giornata decide di andarsene. Gli piaceva scrivere necrologi.»
«A nessuno piace scrivere necrologi. Secondo me sei solo incazzato che non ti ha detto niente.»
Ci ho pensato su, ho ripulito il piatto col pane e poi ho guardato mia moglie. «Forse hai ragione. Vada al diavolo. Se decidi di dimetterti e non lo dici al tuo collega-amico probabilmente sono solo collega, senza amico.»
Quella notte, immobile nel letto, riuscivo a sentire tutti i rumori. Il respiro di mia moglie che diventava sempre più regolare, il motore delle poche macchine rimaste in giro, il battito del mio cuore, che ancora una volta non sapeva dove andare. Poi ho capito. Il giorno dopo ho chiesto all’amministrazione del giornale il suo indirizzo e dopo il lavoro ci sono andato. La strada dove abita Cesare è spoglia e senza luce. Pochi alberi a tenere compagnia all’asfalto. La luce del tardo pomeriggio accarezzava le piccole case di quella strada residenziale. Ho bussato alla porta ma non ha risposto nessuno. Ho fatto un giro sul retro della casa ma non c’era traccia di Cesare. Ci ho pensato un attimo, poi ho preso una bella rincorsa e ho dato un calcio alla porta. La casa era in ordine. Nessun piatto o bicchiere in giro. Sono andato verso il piccolo soggiorno e sul tavolo ho visto una cartolina di una spiaggia. Sul fronte c’era scritto: «La spiaggia dei ricordi ti accompagnerà per sempre». Dietro c’era una sola frase: «Le cose succedono e basta». L’aveva scritta Cesare, conoscevo bene la sua calligrafia.
Mi sono messo in macchina e dopo un’ora sono riuscito a trovare quella spiaggia. Erano le 19.30 di un pomeriggio di settembre e il sole stava per morire davanti ai miei occhi. Il mare era grosso e imponente, proprio come aveva detto Cesare. Ho sceso le scale di legno e ho toccato la sabbia. Più mi avvicinavo alla battigia, lontanissima, e più mi pareva di sentire un cane abbaiare. Ho iniziato a correre verso il mare, come fanno i bambini, mentre la luce sbiadiva davanti a me. Quando sono arrivato a pochi metri dal mare, ho riconosciuto Cesare-cane: correva verso di me. L’ho abbracciato e gli ho chiesto dove fosse Cesare, ma lui continuava ad abbaiare. Ho alzato lo sguardo: un corpo galleggiava nel mare. Era di schiena il corpo di Cesare, ed era illuminato dagli ultimi lampi schiariti del sole. Mi sono tuffato in acqua con tutta la forza che avevo e l’ho tirato su. Intanto gli urlavo: «Ora ti salvo io, Cesare!».
Pochi attimi dopo la fine del sole su quella giornata, i medici mi hanno detto che Cesare era morto. Nessuno sapeva come era successo. Era successo e basta. Hanno detto che si era ucciso, eppure io non ci ho mai creduto.
Il giorno dopo in ufficio mi sono messo al pc e ho iniziato a scrivere queste parole che avete appena letto, il mio primo articolo come nuovo responsabile dei necrologi.
Raffaele Cars