Un regina infantile e capricciosa con una guerra da gestire: «Porcellana» è il racconto di Angelo Maria Perongini
La Regina ci convocò al gabinetto della Difesa quel pomeriggio, ma qualcosa andò storto e fummo costretti a recarci alla toilette per non contrariarla. La sua chioma rossa spuntava di alcuni metri oltre la porta, come la coda di un gatto nascosto dietro una tenda, convinto che nessuno si sia accorto della sua presenza. La Regina non si era mai tagliata i capelli in tutta la sua vita: li portava acconciati in una corposa treccia che ogni martedì e venerdì uno stuolo di ventisette domestiche – ne aggiungeva una a ogni compleanno – si premurava di sfilacciare, lavare, imbalsamare e riannodare.
Entrati nella toilette, la trovammo seduta sul vasino. In mezzo alle gonne si scorgevano sette paia di mutandine di varie tonalità di rosa, impilate dalle caviglie alle ginocchia. Aveva l’aria trasognata e reggeva sulle cosce un canestro di fichi neri. Se li portava alla bocca in maniera voluttuosa e un po’ maldestra, e la polpa le sgorgava tra le labbra e le dita, sembrava stesse mangiando piccoli cuori.
Quando ci vide arrivare ordinò che ci calassimo le braghe e ci mettessimo seduti sui vasi di fronte a lei. Ci guardò come un’inquisitrice mentre facevamo tintinnare cinghie e bottoni ed esibivamo i rosei gioielli penduli, ma nei suoi occhi felini non c’era alcuna malizia.
«Signori,» disse, pulendosi il muso insanguinato con la manica di seta, «ho capito come vincere la guerra!»
Eravamo abituati alle idee folli della Regina. Lo psichiatra che l’aveva visitata all’età di tredici anni, dopo l’episodio del coccodrillo, aveva concluso che il peso della capigliatura le gravava sul cervello ed era responsabile della maggior parte delle sue malsane iniziative. Ma non c’era stato verso di convincere la Regina a dare neanche una spuntatina. Con l’avanzare dell’età e della guerra era persino peggiorata! Solo un anno prima aveva nominato Capo di Stato maggiore una delle oche del suo giardino. Non l’aveva neanche scelta a caso, si era appostata sul ponte del laghetto e le aveva studiate per tre giorni, prima di indicare quella con una macchia sulla fronte e mettersi a gridare come se le avessero rubato la borsetta. Ma la sua nuova proposta ci colse completamente alla sprovvista.
«Bambole di porcellana da guerra.»
Iniziammo a guardarci l’uno l’altro e a mormorare preoccupati. L’oca poteva essere tranquillamente trascurata – stava in ammollo nel suo vaso, in testa l’elmetto che la Regina aveva fatto confezionare per lei, e si guardava attorno non meno inquieta di noi –, ma che dire di una bambola di porcellana da guerra?
«Maestà, comprendiamo le vostre ragioni,» mentimmo, «ma perché proprio di porcellana?»
«Sciocchini! Avete forse mai sentito parlare di bambole da guerra di pezza?»
Incaricammo dunque ceramisti, sarti e armaioli tra i più rinominati della nazione di mettersi subito all’opera. La Regina supervisionò ogni fase dei lavori, dalla scelta delle materie prime fino ai più trascurabili dettagli, come il numero e la lunghezza delle ciglia. Volle che il disegno dell’abito fosse firmato da uno stilista capriccioso e irreperibile, e fu talmente esigente sul colore e la trama dei capelli che si offrì addirittura di recidere la sua lunghissima chioma per donarla alle testoline di porcellana. Quando le domestiche lo seppero, una fu talmente presa dal sollievo che diventò stupida e da quel momento in poi mangiò solo patate crude.
In due mesi avevamo tra le mani mille bambole, mille soldatine dalle pupille acquose e le boccucce di rosa, ciascuna nella sua confezione scintillante. Erano davvero stupende: i fucili color antracite annegavano in mezzo ai nastri e ai fiocchetti con struggente abbandono, e le trecce vermiglie raccontavano di tramonti e selvaggina.
Per celebrare la fine dei lavori la Regina indisse un banchetto privato con i vertici della Difesa. Vennero serviti funghi annegati nel vino rosso, un setoso purè di patate e dell’uccellame arrostito che grondava un ricco umore ambrato. Ci guardammo intorno con una certa apprensione, aspettandoci di scorgere il Capo di Stato maggiore che arrivava starnazzando scuse di ritardo, o in mezzo ai vasi di piante lacustri – erano diversi giorni che non lo si vedeva in giro.
«Maestà,» dicemmo quando comparvero i camerieri con le cornucopie alla crema e lamponi, «ora si pone la questione di come portare le bambole sul campo di battaglia.»
La Regina scoppiò a ridere così forte da farci temere che il cranio spoglio e luccicante le sarebbe esploso. «Perdonatemi, signori, ma qualcuno tra di voi ha idea di come funzioni una bambola da guerra?» chiese. Poi ci guardò uno per volta, leccandosi le labbra come se le nostre espressioni sgomente la deliziassero. «Oh, non vi biasimo, certo che no. Dopotutto ci sono giocattoli che non sono fatti per i maschi. Ma non dovete preoccuparvi di questo. Il vostro compito si è esaurito, e ho già incaricato i fornitori dei grandi magazzini di venire a caricarle sui loro camion domani mattina. Potete godervi il dessert.»
«I grandi magazzini, maestà?» chiese qualcuno.
«Naturalmente. Non avrete mica creduto che le mandassi a combattere? Sono troppo delicate! Oh, per fortuna le bambine lo sanno che non potranno portarsi delle bambole di porcellana sul fronte. Dopotutto, se avessimo voluto che lo facessero, le avremmo fatte di pezza, non vi pare?»
Angelo Maria Perongini