Nascere donna e con un destino già scritto: «Piedi nudi» è il racconto di Martina Faedda
Sono nata in una casa di pietra in mezzo al bosco, vicino a una borgata a 1700 metri di altezza. Vivière al tempo era popolata da una ventina di pastori e dalle loro famiglie, tra cui la mia. Ora non lo so chi ci vive, sono passati tanti anni. Quando a mia madre si sono rotte le acque era settembre, mio padre era ancora più in alto sulle montagne per accompagnare le mucche al pascolo e non sarebbe sceso prima di qualche settimana. Mia madre stava uscendo per andare a lavoro da Pier, il proprietario del piccolo negozio di alimentari al paese di sotto. Sua moglie era morta di parto e lui aveva bisogno di qualcuno che badasse al bambino. Sentì l’acqua calda gocciolarle sulla gamba mentre era ancora sull’uscio, aveva appena chiuso la porta. Sbuffò, tornò dentro e mi partorì così, da sola in casa. Che ha sbuffato lo dico io perché lei non lo ha specificato, però quando mi ha detto come sono nata la storia l’ho immaginata così, quindi la racconto così. Per quindici anni sono stata Ines, una bambina coi capelli lunghi ingarbugliati di rami e le lentiggini, che correva a piedi nudi nel prato davanti a casa. Ho giocato con le mie oche e con i miei gatti, che non erano proprio miei ma mi stavano sempre vicini. Mamma ogni tanto portava il figlio di Pier a casa nostra, se aveva delle faccende da sbrigare, ma Carlo era più grande e aveva il brutto vizio di prendermi per i piedi e farmi male. Io per questo scappavo ogni volta nel bosco. Per quindici anni sono andata ogni giorno, la mattina appena sveglia quando il sole ancora non c’era, a riempire alla fonte due secchi d’acqua fresca. Sono andata a scuola, ho imparato l’alfabeto e a fare i conti, ho imparato a cucire e a fare la maglia. Poi ho smesso perché ho imparato tutto quello che mi serviva. Sono andata ad aiutare i pastori nei campi, le loro mogli nelle case a far da mangiare, ad accudire i loro animali e i loro figli. I soldi che mi davano li mettevo in una sacchetta di stoffa che nascondevo sotto la chiusura della gonna e li portavo correndo fino a casa, dalla mamma. Mio padre, se c’era, mi faceva una carezza sulla testa e mi diceva: «Brava la mia Ines». Mia madre li contava e poi scuoteva la testa sbuffando. «Non bastano.» Io non sapevo a cosa servivano, quindi non sapevo neanche perché non bastavano, e me ne andavo fuori a piedi nudi a salutare le mie oche e i miei gatti.
Poi me lo hanno fatto sposare, Carlo. Era più grande di me e si occupava già di un negozio tutto suo, aveva già la sua casa in città e aveva dei soldi. Mia madre non ne aveva invece, e mio padre era vecchio per il pascolo e ogni anno tornava indietro con una brutta tosse. A volte di notte avevo paura che morisse soffocato. Io avrei preferito sostituirlo in cima ai monti con le mucche che sposare Carlo, ma mi hanno detto che non potevo, così ho fatto come diceva la mamma, perché avevo paura che si spazientisse. Hanno messo le mie cose in una sacchetta di stoffa come quelle che usavo per portare i soldi alla mamma: il mio certificato di nascita e il gufo intagliato nel legno che mi aveva fatto papà quando si riposava in cima alla montagna. Di vestiti possedevo solo quelli che avevo addosso; Carlo me ne avrebbe comprati altri adatti, una volta arrivati in città. Mi sono messa gli scarponcini coperti di fango e pietre direttamente sui piedi nudi, e l’ho seguito verso la città. Dal nostro matrimonio mio padre non è mai più andato al pascolo e non hanno mai avuto problemi per comprare da mangiare. Forse qualcuno di gentile li aiutava ora che io non potevo più contribuire. O magari avere una figlia costava troppo.
Abbiamo fatto una cerimonia in chiesa lo stesso giorno che mi sono venuti a prendere, con la gente che si diceva cose nelle orecchie e mi lanciava strane occhiate. Io non conoscevo nessuno, del paese dove ero nata non c’erano volti. Carlo a me non ha detto nulla, ha detto «sì» al prete al momento opportuno e poi è andato a fare festa. A casa, quella casa che non conoscevo e non avevo mai visto prima di quel giorno, mi ci ha accompagnata suo padre. Io volevo che anche il mio mi accompagnasse ma non era neanche venuto al matrimonio e ancora non lo sapevo, e Carlo non mi avrebbe più permesso di tornare a Vivière. Pier mi ha fatto vedere la stanza da letto e se n’è andato, lasciandomi di fronte a quel grosso materasso che avrei dovuto condividere con suo figlio. A casa mia dormivamo tutti nella stessa stanza, e quando papà era in alto nel pascolo io andavo a dormire vicino alla mamma e mi attaccavo stretta a lei, e lei sbuffava un po’. Ora invece avrei dovuto dormire con Carlo, che era sparito e non si sapeva quando sarebbe tornato. La mamma prima di salutarci mi aveva detto che la notte, quando Carlo si avvicinava a me, dovevo lasciargli fare quello che voleva, perché è così che fanno le mogli. Io avevo capito di cosa parlava perché nelle fattorie anche gli animali si avvicinano alle femmine e non solo di notte, e serve per fare i cuccioli. Io non volevo un bambino; sapevo però che a lui serviva per il negozio e che quindi avrei dovuto farlo, allora preferivo togliermi subito il pensiero. Ma Carlo neanche c’era e quella notte mi sono addormentata da sola, sul lato sinistro del letto, con addosso una camicia da notte e delle pantofole di velluto che mi aveva dato Pier prima di lasciarmi lì. «Un regalo per te» mi aveva detto. Mi sono risvegliata a notte fonda per un forte tonfo: Carlo era tornato e puzzava forte di alcol e di anice. Si è sdraiato ruvidamente accanto a me e ha iniziato a russare e io ho fatto fatica a riaddormentarmi per l’odore.
Il giorno dopo mi sono svegliata che Carlo era già sparito e con lui anche le mie nuove pantofole. Non mi è dispiaciuto troppo, a me piaceva sentire il pavimento sotto i piedi, così sono scesa dal letto e ho camminato scalza fino alla cucina. Lì ho trovato Carlo, intendo a leggere il giornale. «Buongiorno» mi ha detto. «Dormito bene?» Io non ho risposto, allora ha continuato. «Spero che tu faccia un buon caffè, altrimenti mi sono preso una bella fregatura sposandoti.» Il tono sembrava scherzoso ma non ero sicura perché non lo conoscevo bene, quindi mi sono messa immediatamente ai fornelli. Lui si è alzato e mi si è avvicinato bruscamente, guardandomi negli occhi con insistenza. Poi ha proseguito con il suo esame, girandomi intorno per osservare il petto e i fianchi. Io sono rimasta immobile come si fa dal dottore. La sua espressione era paga, ho pensato che i miei fianchi andassero bene per i bambini. Infine si è accucciato sulle ginocchia, ha messo le mani a conchetta sui miei piedi nudi e li ha baciati con le labbra viscide e bagnate. «Le pantofole non ti serviranno mai qui dentro» mi ha detto, e in quel momento, il fatto di aver perso il mio nuovo regalo ha iniziato a dispiacermi.
Martina Faedda