Un giorno di lavoro, un giorno di alienazione. «Patatine a colazione» è il racconto di Nicola Scotton

Illustrazione di Linda Demichelis
A quest’ora, anche l’ultimo cane in calore ha smesso di tenerci compagnia.
C’è una sfumatura propria del fare la notte che non riesco a inquadrare del tutto. Una specie di stanca euforia, appagamento preistorico, quiete bestiale. Il genere di enigma che appassionerebbe pure, se non fosse l’ora che è, e io non facessi quello che faccio. Il contatto con una porzione di realtà riservata a pochi prescelti, il privilegio nascosto di una fatica nuda e solitaria. Sto straparlando, chiedo scusa. Sto delirando. Sono già le quattro, solo le quattro. Siamo la punta di diamante della cantieristica navale italiana. Abbiamo un organigramma interno ben definito. Ci sono i padroni, che nessuno conosce, ma pagano. Gli ingegneri che ingegnano, gli operai diurni che lavorano e i notturni che si fanno il culo quadrato. Lo dice sempre il responsabile di segmento: «Grazie a Dio che ho voi ragazzi, che per pranzare non ve ne tornate a casa due ore, che non rompete i coglioni per le temperature troppo alte dell’acciaio o per gli imbraghi che non bastano o per la porcheria che vi tocca respirare. Che se cadete e vi spaccate una gamba continuate a lavorare fino alla fine del turno e poi vi fate la malattia belli tranquilli, senza andare a frignare da quei piantagrane bolscevichi dell’Inail». Dall’alto ci vogliono bene. Hanno riguardo di noi, quand’è ora di gratifiche natalizie. Nel nostro pacco c’è sempre una bottiglia di acquavite della marca migliore. Non la mettono mica nel pacco dei diurni.
Stringo l’impugnatura della saldatrice. La scucitura del guanto sinistro tra l’anulare e il medio aumenta, come il suono del poliuretano lacerato dalla pressione della pelle tesa. Lascio cadere l’attrezzo e vado incontro al caporeparto. Me ne servono di nuovi, gli dico. Mi allunga un pezzo di carta, il modulo per la richiesta di equipaggiamento sostitutivo. «Il magazzino apre alle cinque» mi dice. «Lo so già, lavoro qui da otto anni.» Per un’ora me li devo tenere. Le faville che si alzano dal metallo incandescente sono come tanti spilli incendiati. Ogni volta che calo la saldatrice un bel po’ di queste finisce nel buco del guanto e brucia quello che trova. Per un’ora me li devo tenere, cercando di non fottermi un dito. Si avvicina Philippe con due bicchieri di polistirolo pieni fino all’orlo. Al refettorio stanno distribuendo sidro caldo e un po’ di crostata.
«Che è ’sta storia?»
«Deve essere il compleanno di qualcuno.»
Mi porge il bicchiere e devo reggerlo con le unghie per non seminarne il contenuto.
«Vuoi fumare?»
«Cos’hai?»
«Chesterfield Blu.»
«La solita merda.»
«Questo passa il convento.»
Ne sfilo una dal pacchetto mezzo pieno. Le prime due boccate sono per distendere i nervi delle mani, ancora rigide, nella posa che serve a reggere la saldatrice. Il tabacco è così amaro che per coltivarlo penso abbiano usato il piscio di capra al posto dell’acqua.
«Sono cinque giorni che tossisco rosso.»
«Ti credo. Finché fumi questo schifo.»
«Non scherzare su questo.»
Mi sta sul cazzo quando Philippe fa così. Ce l’ha col fatto che la notte hanno cominciato a filtrare meno, così le temperature possono salire quanto vogliono senza che ci sia bisogno di staccare i forni. L’altro giorno, all’assemblea, il responsabile del segmento ha parlato di flessione della produttività marginale al minuto. Ha fatto una bella filippica sul futuro delle grandi industrie, sull’incidenza dei tempi morti sulle passività di fine anno, e il capocantiere non ci ha capito una minchia e gli ha chiesto di rispiegare tutto come se avesse avuto davanti degli analfabeti. Bisogna muovere il culo, in buona sostanza. Muovere il culo e non fare gli schizzinosi. Recuperare soldi da quei buchi di tempo in cui ci ricordiamo che si vive anche mentre si lavora. Sono troppi tre minuti per arrivare dal nostro reparto alla comfort area. Presto ci daranno in dotazione un mini-termos da tenere agganciato alla salopette, più una gavetta come quelle degli alpini in Russia. Dipendesse da me, dovremmo avere anche una brocca in cui pisciare. Qui si fanno le scocche degli scafi, non so se l’ho già detto. Quelle che stanno direttamente a contatto con l’acqua. Le forgiamo, le stampiamo, le rifiniamo, le verniciamo. Le normative comunitarie sulle emissioni delle sostanze nocive sono il nemico dell’industria pesante. Lo sono sempre state.
«Bada però: non venire poi a lamentarti dei soldi che sono pochi.»
«Chissenefrega dei soldi.»
«Adesso dici così, poi vedi cosa ti danno per gli straordinari e piangi.»
«Ho un figlio di otto anni. Lo preferisco povero piuttosto che orfano.»
«Gliel’hai chiesto? Te l’ha detto lui?
*
Le cinque meno cinque. Mi avvio verso il magazzino. C’è un po’ di frenesia in giro, gente che bofonchia, gente che non è mai contenta. Fabio, il magazziniere, è in ritardo. Una squadra di verniciatori attraversa il piazzale con le tute imbrattate di nero fino al colletto. Hanno le maschere smontate, vengono a farsi cambiare i filtri. Anche loro coi musi lunghi. Ne origlio con discrezione i borbottii e capisco perché: dall’alto è partita la caccia a volontari più o meno volontari disposti a fermarsi oltre la fine del turno. Tralascio la faccenda dei guanti e torno in cerca del caporeparto.
Lo trovo alle piegature, l’affronto corni bassi. Gli chiedo se ha bisogno di saldatori. Risponde che tranne che di mulettisti è in carenza di tutto. Tre ore in più, diciotto netti all’ora. Sta bene, concludo. Il frigo è vuoto, il mutuo si prende tutto. Colpa mia, che ho voluto a tutti i costi comprare casa a V. Non li conoscevo, i costi. Ero ingenuo e affascinato. Mi sono fatto piantare una cannuccia nella vena e tra un mese sono dodici anni che la banca succhia. Ho fatto una cazzata, ma avrebbero dovuto avvertirmi. Dovrebbe essere legge, che se a venticinque anni stai facendo una cazzata qualcuno te lo deve impedire.
Torno al mio posto. Osservo il pezzo che ho appena finito, una lamiera congiunta a saldare. Ci vogliono circa cinquecento di queste lamiere per fare una sezione, ed è preferibile che siano fatte bene. La rivolto su un lato, poi sull’altro. Faccio leva sul banco da lavoro e la studio contro la luce del riflettore. È venuta bene. Passerò per piazza delle Ceramiche prima di andare alla stazione. Ho visto un cartello fuori da una bottega: insalata russa in offerta. Mi sono comportato bene, ho fatto più del mio. Me la merito. Una vaschetta di insalata russa e tre etti di mortadella. E due arance. Sì, potrei comprare anche due arance. E grissini, crackers, pane croccante all’olio d’oliva. Un dolce pronto della Mulino Bianco e una vaschetta di stracchino. Pomodorini secchi. Diciotto per tre fa cinquantaquattro. Ci stanno dentro due bottiglie di tè e qualche pacchetto di patatine, così ho arrangiato anche per la colazione. Ma ne ho per altre quattro ore, devo smetterla di pensare al cibo.
Dimenticavo: c’è il mare a lato di tutto. È che ormai mi ci sono abituato, sono rari i momenti in cui me ne accorgo veramente. Peccato perché sarebbe un bel lusso. Esco dal porto, percorro la passerella che dall’attracco esce due o trecento metri sulla superficie dell’acqua. Mi sporgo dal corrimano e respiro. Respiro il sale, sparso ovunque, per centinaia di chilometri davanti a me. Respiro la schiuma frizzante che fanno le onde quando muoiono addosso agli scogli. E respiro la notte, che dura troppo. Vorrei finisse prima. Ma la notte è notte, ed è stata concepita per durare quello che dura. E se ne frega di tutti noi. Di ciò che sogniamo e speriamo. Delle pretese che avanziamo con una certa tracotanza.
*
Prima di andare a dormire ho staccato la sveglia. È il mio giorno libero, una delle due volte al mese in cui casca di sabato. Alle quattro sono seduto sul letto. Guardo fuori dalla finestra aperta da ieri, sole alto, cielo azzurro, pennuti che fan festa. Sarebbe criminale non combinare nulla con una giornata così.
Caccio la testa sotto al cuscino. Richiudo gli occhi. E me la godo un altro po’.
Nicola Scotton