Le crepe nei muri e nei cuori dopo un terremoto: «Paese Marino» è il racconto di Maria Antonietta Durante

Illustrazione di Dario Licata
A Paese Marino le crepe sono tante: un terremoto, alcuni anni fa, ha ferito metà del paese e adesso nella sua topografia c’è una curva nuova, un sentiero della fragilità che fino al giorno prima era invisibile.
Nei mesi successivi chi era sopravvissuto aveva lavorato per ricostruire ciò che andava ricostruito e per cancellare ciò che andava dimenticato. Mario è uno di loro, e il suo albergo si affaccia su quel sentiero: con i balconi sull’interno crollati e i vetri rotti, ma tutto sommato intero, come può esserlo qualcosa che resta e che ormai non serve più.
Mario ha deciso di restarci in quell’albergo rimesso insieme come il resto del paese.
Anita anche oggi, come ogni mattina, scende nella cucina che Mario lascia aperta ai suoi ospiti; mette sulla tavola quattro tazze, le riempie di latte e solo in due versa del caffè. Infine, si siede, sorride orgogliosa per quel suo gesto premuroso. «Sono sempre tutti in ritardo» sussurra, e come al solito dovrà fare colazione da sola.
Quando finalmente Mario entra, lo guarda e gli dice: «Sono per i miei bimbi, dormono sempre tanto, quando arrivano li sgridi anche lei. A mio marito invece gliene dico due io».
Verso le otto li raggiunge Gloria, con uno dei suoi ampi vestiti di lino e una lunga collana di conchiglie che ondeggia a ogni passo. Il volto racconta un’età che non è sua.
«I solchi nella pelle sono tutti i dispiaceri che mi hanno dato,» ripete almeno una volta al giorno, «ma io ho resistito e quello lì non l’ho sposato, anche se poi sono dovuta andare via di casa perché i miei non mi volevano più.»
Anita e Gloria occupano due camere dell’albergo. Nelle altre, ruotano gli abitanti del paese. Mario ne ha allestita una per i genitori che sorridono sempre ai figli, nel tentativo di essere mamme e papà, una persona doppia, mentre in ciascuno di loro quell’unità, l’essere una sola carne, come hanno sperimentato dal giorno del matrimonio, si è lacerata per sempre. S’erano promessi fedeltà eterna, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia; s’erano promessi pure di amarsi e onorarsi tutti i giorni della loro vita e ingenuamente avevano creduto che il numero di quei giorni sarebbe stato lo stesso per entrambi. La data di scadenza era invece lì, lo stesso giorno per tutti loro. Quel giorno. Una nuova data da incidere all’interno della fede, accanto a quella di nozze, l’ultimo giorno della vita di un nome che ora era inciso su un anello e su una tomba.
A volte basta poter dormire una notte, poter fare un bagno lungo quanto si vuole, o spogliarsi lasciando i vestiti sul pavimento. Mangiare e bere sul divano e poter piangere e urlare senza paura di dare un cattivo esempio. Una pausa, piccola, che impedisca alla fiammella dell’amore di spegnersi sotto la campana del dovere. Intanto i bambini giocano con «zio» Mario e ridono e si fanno dispetti, perché è quello che devono fare i bambini.
Quando ci sono i piccoli in giro, Anita pensa sempre ai suoi, a volte sa che hanno settant’anni e vivono in America, altri giorni è convinta che stiano giocando a nascondino insieme agli altri e inizia a contare. Qualche notte esce sul balcone e inizia a chiamarli. «La cena è pronta» dice, e subito annoda il grembiule sopra la vestaglia e inizia a cucinare torte. Mario controlla sempre che in dispensa ci siano gli ingredienti giusti, e lascia apposta le ricette stampate sul bancone. Ricette stellate, come quelle che Anita avrebbe voluto fare da giovane, prima di restare incinta dei gemelli, a sedici anni, sapendo che i figli valgono più di una carriera, però… come sarebbe stata brava!
Un’altra camera è stata allestita per quelli che ancora non possono accedere alla propria casa e vivono da parenti che, se pur ospitali, sono estranei; dormono in letti che non gli appartengono, mangiano in piatti che non hanno scelto, e anche se non chiedono più il permesso per usare gli utensili della casa, si sentono ferocemente fuori posto.
Qui Mario gli permette di lasciare sparsi su tavoli e ripiani gli oggetti che sono riusciti a recuperare dalle loro case. Un posacenere di terracotta, una cornice con la foto di un uomo chino su un cane mentre il sole tramonta dentro il mare, una lampada a forma di fiore, una sedia a dondolo in vimini. Ogni ospite può stare quanto vuole, ma non può toccare gli oggetti degli altri; nel tempo concesso con le proprie cose, ciascuno si sente di nuovo a casa. Non un inquilino di passaggio, ma il padrone.
Gloria sbircia sempre i nuovi arrivati, è affamata di storie d’amore, e ogni oggetto che viene recuperato è per lei il pegno lasciato da un amante. È valsa la pena essere così fiera e rinunciare a tutto: un marito, una famiglia, anche le amicizie, per girare il mondo come violinista?
Ha scritto una melodia per ciascun oggetto e la suona ogni volta che un ospite entra in quella camera. Nessuno lo sa o può capire. Si muove flessuosa mentre agita l’archetto e scende le scale a chiocciola dell’albergo. Appena fa per uscire, il suono si disperde, come la sua stessa vita. Mario la segue e quando arriva l’ultima nota, la riaccompagna in camera.
Lei non si ricorda dove si trova e perché ha un violino in mano. Dolcemente, lui le racconta la sua storia, tralascia la sofferenza e la impreziosisce di feste e amori. Gloria sorride e arrossisce, e con gli occhi colmi di lacrime è grata per la vita meravigliosa che ha avuto, quella che ha sempre desiderato.
A Paese Marino ci sono crepe nei muri e nei cuori. Non mente mai, Mario, ma riempie le crepe con materia vecchia e nuova, indistinguibile una volta mischiata. Poi, in una feritoia lasciata apposta, aggiunge un seme, quello del giglio di mare, che nasce proprio lì dove non c’era altro che aridità.
Maria Antonietta Durante