Cosa resta quando qualcuno smette di esistere? «Notizie di Anna» è il racconto di Alessandro Grippa
Cerco tracce di Anna, un’amica scomparsa anni fa. Dove ritrovarla? Ricordo la sua voce, se mi sforzo. Forse ho un buon orecchio, accordato anche ai suoni inascoltabili. So che non è proprio così. La memoria è un fatto cronologico; avessi avuto uno smartphone a dieci anni, forse oggi mio nonno sarebbe ancora con me. La qualità della memoria dipende dalla generazione che la esercita. Non è vero. Lo è in parte. Mia madre mi regalò un registratore vocale portatile: un progetto scolastico richiedeva di intervistare le persone più illustri della mia città, così ricevetti quell’apparecchio marca Sony piccolo ma non snello, anacronistico. Avrei potuto registrare anche la voce di mio nonno. Oggi ci penso con rammarico. Dunque cerco stratagemmi contro l’oblio. Uno è scrivere. Scrivo: Mio nonno sedeva affacciato al cortile, osservando l’andirivieni delle galline, il chiasso dei pochi galli. A volte si assentava. Aveva gli occhi gialli come gli itterici. Il corpo minuto ma forte, la voce compatta. Sul fondo una vecchia Fiat 500 mangiata dall’erba. Mio nonno parlava, i galli ruzzavano. Ho messo la sua presenza in quell’orizzonte. Come due scatole: una più piccola e una più grande; no, una più nuova e una vecchia, una più vecchia e una eterna.
Dov’è Anna? Appoggio lo smartphone all’orecchio. Lei non ne aveva uno. Non ha fatto in tempo. La chiamo per nome, nessuno risponde. Con lei fumai la mia prima canna. Nel parcheggio del liceo. Avevo quattordici anni, un bimbo; ma questo lo comprendo solo ora. Dov’è Anna? Si era fermata dietro al cofano di una macchina. Accovacciata come se dovesse urinare. Aveva un anno più di me. Quel movimento mi aveva sconvolto, non mi credevo pronto ad assistere a una scena tanto intima. Lo desideravo con tutto me stesso. Poi si è sfilata di tasca una bustina, ricavata dal cellophane di un pacchetto di sigarette. All’interno c’era un dado bruno. Mi ha invitato a sederle accanto; l’ho visto, l’abbiamo annusato. Sapeva di paraffina, sapeva vagamente dell’erba medica che cresceva nel cortile di mio nonno. Ha preso l’accendino, ha iniziato a sgretolare il dado dentro una cartina. Mi ha chiesto: sai fare un filtro? Non lo sapevo. È facile, strappa un pezzo di carta e arrotola stretto. Il biglietto del treno andrà bene. Abbiamo fumato spalla contro spalla in quel parcheggio di ventidue anni fa, dietro a modelli di vetture che oggi si vedono solo nei film. Mi chiedo dove siano i loro proprietari. Proprio come me lo chiesi allora. Aveva iniziato lei, espellendo una lunga fumata biancastra contro il cielo azzurrissimo. Non la chiamavamo né canna né spinello, ma torcia. Ci sembrava più poetico. Stavamo condividendo uno strumento di luce, qualcosa attraverso cui vedere più chiaramente. Fumavo e pensavo alle Sette opere di Misericordia di Caravaggio: quando si ritraeva in una scena spesso si rappresentava come portatore di un lume, per schiarire le tenebre. Perché l’autore illumina, mostra. L’avevo letto in un libro. Eravamo al primo e al secondo anno di liceo artistico. Anna non si sarebbe mai diplomata. Fumammo tutta la torcia ma nulla ci fu chiaro, in realtà; il pomeriggio sarebbe rimasto annebbiato con il cuore che batteva lungo come una cassa gabber. Ancora oggi metto una mano sopra il pettorale destro, la premo. Continuo a stupirmi di non sentire nessun battito. Ecco, così è la morte, mi dico. Alla fine mi restò tra le mani il filtro, fatto con il mezzo biglietto del treno. Continuavo a pensare: e adesso come faccio a tornare a casa? Come faccio a tornare?
Anna è morta in un incidente stradale. Annegata in un fosso. Quando ci penso io penso al mare. Perché non si può che annegare in un mare. Guardo le lunghe distese di campi e le cascine e lo vedo, quasi mi viene da ridere. È un oceano o è il Mediterraneo? Non importa. Questa è la provincia. Queste le sue morti. Che sono le nostre. Ogni tanto apro Instagram, digito il suo nome. Omonimi. Come Sophie Calle mi incaponisco nella vita di qualcuno. La scorsa estate Anna ha fatto un viaggio. Sta bene, la vedo sorridere nel porto di Spalato, appoggiata a un muro. In altre foto è in spiaggia. Indossa un costume corallo, è un colore che le dona. Vorrei dirglielo. È molto abbronzata, è dimagrita, ora è bionda. Ha un tatuaggio sull’avambraccio destro. Commenta le foto con gli emoji. Oppure pubblica scatti invernali; in uno ha un lungo cappotto mimetico, indossa un paio di Ugg. È per strada e tiene al guinzaglio due cani. Scopro che si è fidanzata. Li trovo complici. Si baciano nella grande piazza di una città del Nord Italia.
Al funerale eravamo in tantissimi. Tutta la chiesa tutta la piazza gonfia di ragazzi. Si era lì per lei, eppure lei non c’era. Un’intera generazione; chi piangeva, chi stava zitto, qualcuno rideva ma sottovoce. Nessuno scattava foto. Come potevamo? A chi? Ci sarebbe sembrato assurdo farlo. Così adesso l’unica cosa che mi resta di quel giorno è un ricordo che non basta. Ci si infiltra la vita e lo dilania; come l’erba nelle crepe rugginose delle macchine. A volte passo ancora per quella piazza. Vederla vuota mi dà le vertigini. Siamo in così tanti ad aver dimenticato? Siamo in così tanti a essere rimasti. Solo chi rimane dimentica. I morti si ricordano di tutto. Ci tengono a mente. Così a volte io credo che forse è lei a cercarmi. Arriva, chiede mie notizie. La mattina bevo il caffè al bar, vicino al liceo dove lavoro.
Leggo sempre l’oroscopo su un quotidiano. C’è stato un giorno in cui per il mio segno zodiacale riportava esattamente: «[…] dice bene David Bowie: “Questo è lo shock: tutti i luoghi comuni sono veri; gli anni passano sul serio; la vita è davvero corta come ti dicono”». Ho sorriso, sapevo che era lei; la stessa Anna che sul treno mi passava una cuffia, nel lettore il cd di Space Oddity. L’oroscopo concludeva suggerendo l’ascolto di An occasional dream, la sua canzone preferita. Sono corso nel piccolo bagno del locale, l’urgenza del vomito. Sì, era proprio lei.
Un altro giorno ancora, la mia auto si è fermata. Lasciandomi così, all’improvviso. Fermo sulla strada in cui avvenne l’incidente. È una strada di campagna, tutta curve, che corre parallela a un fosso maestoso. D’inverno guidarci non è sicuro. Con l’umidità che sale ci si trova immersi in banchi di foschia, e se la temperatura scende sotto zero la nebbia può gelare creando lastre scivolose sull’asfalto. Anna è morta a diciassette anni, un sabato notte; che banalità. Alla guida c’era un’amica che è rimasta illesa; ha avuto addirittura la forza di uscire dalle lamiere e fermarsi a bordo strada, aspettando i soccorsi. Io mi ricordo di Anna. Nel mio ricordo lei è ferma a bordo strada, ogni mattina alle 6:45 in sella alla sua bici, aspettandomi per correre insieme verso la stazione. Il corpo quasi adulto dentro un piumino bianco, il suo sorridermi con gli occhi arrossati per il freddo. Quella voce. Che mi dice sbrigati, facciamo tardi! Mi esorta. Non aspettarmi Anna, io ritarderò. Sarò così in ritardo che alla fine un giorno deciderò anch’io di fermarmi. Scenderò dall’auto, brucerò i libri, eliminerò i miei profili, cancellerò le foto della mia esistenza.
Quel giorno, con la macchina in panne, guardavo la campagna, l’orizzonte butterato da olmi e campanili, dai cavalcavia. Cercavo il mare. Ci sono posti assurdi, posti sommersi dalle epoche, pietre miliari a bordo strada vecchie di centinaia d’anni che tracciano confini dimenticati da tutti, segnaletica per i morti. Ci sono macchine lasciate a devastarsi lungo il margine delle cascine, uomini che desolatamente urinano a un muro pensando di non essere visti. Forse sono fantasmi. Ci sono pesci d’acqua dolce che ingoiano tutto, anche la carne, credendo siano alghe o insetti. E invece siamo noi. Così metto una mano sopra il pettorale destro, la premo; questa volta forte, premo più forte. Sento un’eco del cuore, impercettibile ma esatta. Mi dico che è la vita. Qualcosa che mi batte. Qualcosa ancora.
Alessandro Grippa