Si può incontrare un padre assente e chiudere col passato? Niente case ma i tuoi occhi è il racconto di Sara Benedetti
Per anni non ho più pensato a mio padre: non ho creduto che continuasse a vivere da qualche parte, che avesse trovato altro ricovero che non fosse il passato nella mia testa. Invece ora è così chiaro. Nel momento in cui ho abbracciato mio figlio appena nato, ho sentito che mio padre c’è. Ora scopro che ha sempre vissuto a neanche cento chilometri da me, dove vive ancora.
Ho rallentato per avere il tempo di vedere la sua casa, la porta dove immagino che a Natale appenda una corona di agrifoglio, il giardino piccolo ma curato. Sembra una versione meno costosa della casa in cui abbiamo vissuto insieme. Come se volesse riprovarci, come se dovesse averla vinta lui stavolta. Parcheggio e mi chiedo se sua moglie e i suoi figli sappiano. Perché devono esserci dei figli in una casa così. Un giovane uomo esce da quella porta. Spettinato, alto, con aria studiatamente trasandata, entra in macchina per andare via velocemente. Rimango al di qua, sul marciapiede opposto, ancora per un po’.
Ad aprirmi la porta è una ragazzina. Ha i suoi occhi, i miei occhi: alle figlie lui regala il suo sguardo perché non lo dimentichino mai. Perché anche a quarant’anni, chiunque sia la persona con cui hanno dormito, guardandosi nello specchio del bagno, trovino lui a dare loro il buongiorno.
«C’è tuo papà?»
Lei si gira verso l’interno della casa di cui riesco a cogliere l’arredamento moderno, chiaro. Emerge una figura in controluce che ci raggiunge alla porta mentre la ragazzina si dilegua. Ci guardiamo a lungo, e poi lui capisce:
«Clarissa» dice.
È il mio nome, sono io. Vorrebbe abbracciarmi, accenna un passo in avanti, ma poi qualcosa lo trattiene. Il silenzio è l’unica dimensione che ci rimane.
«Andiamo a fare due passi?»
Sì, andiamo. È confuso. Rientra un attimo per prendere le chiavi, quelle e il portafoglio, lancia un saluto verso l’interno e si chiude la porta alle spalle. I miei piedi si avviano sul marciapiede accanto ai suoi. Non provo niente, non sento niente. Mi volto e incontro un paio d’occhi che ci spiano da dietro una tenda. Sono gli occhi della ragazzina e hanno paura di chi sono, che la sua famiglia sia in pericolo. Ho già perso, vorrei dirle. Non c’è più nulla da temere, non da me. Guardati dal tempo piuttosto. Nel tempo eccessivo le cose si sfarinano, non ti resta più niente. Vorrei tornare da lei per abbracciarla, ma la lascio dietro di noi. L’uomo che mi passeggia accanto non parla, ostaggio dei suoi pensieri, come io lo sono dei miei. Dopo qualche centinaio di metri, le case finiscono e, sulla destra, si apre un piccolo parco. Gli alberi sono ancora carichi di foglie di cui qualcuna, precoce, ha iniziato a ingiallire. Senza dirci nulla, ci intendiamo e andiamo a sederci su una panchina. Ci sono anche un’altalena e uno scivolo. Mio padre mi porta al parco giochi ma io sono grande ormai.
Mi guarda dritto negli occhi, come io faccio con lui.
«Allora, come stai? Cosa fai?»
«Sto bene» rispondo. «Scrivo libri e vivo in una mansarda luminosa, con mio figlio.»
Pesco dalla borsa il mio cellulare, gli mostro il salvaschermo.
«Si chiama Tommaso, è il mio amore.»
Un tempo lo eri tu, papà. In fondo, lo sei ancora. Poiché non ci sei stato per così tanto tempo, lo sarai per sempre.
«È bello» dice.
«Ti somiglia. Come tutti noi» rispondo.
«Sì, è vero. Loro sono i miei figli: si chiamano Livia e Claudio.»
Guarda avanti. Questo è il momento più duro. Dirsi che non ci ha sostituiti, dirlo a me.
«Non vi ho dimenticato, non ho dimenticato tua madre.»
«Come avresti potuto?» rispondo, mentre un sorriso amaro mi si apre sulla faccia. «Non ti incolpo di nulla, non farlo tu» aggiungo.
Lui mi dà un bacio sulla fronte, un bacio che mi doveva da tanto tempo.
Certe volte vorrei scomparire, papà. In realtà, volevo scomparire anche quando c’eri tu, anzi di più. Quando guidavi e non frenavi, non arretravi, che lo facesse l’altro, quando le persone mi guardavano, incorniciata nel finestrino, congelata mentre tu ti scaldavi. Però, se fossi sparita allora, rimanevi tu che eri quello forte e quindi andava bene così. Adesso, invece, se sparisco, non rimane niente. Solo una chiazza di vestiti a terra.
«E il padre di… Tommaso?» chiede.
Esito, non so se dirgli del volo che ha preso una mattina di novembre per tornare in Francia ma decido che non c’è ragione di farlo. Per me Louis non se n’è mai andato. Come lui. Come mia madre che è morta. Siamo ancora tutti a ruotare nello spazio su un’unica sfera, insieme o divisi, sopra o sottoterra che importa.
Tuffo il cellulare nella borsa e non so che fare delle mie mani adesso.
«Perché?» chiedo. «Perché mi avete voluto? Sono stata uno sbaglio?»
«L’idea di una bambina – tua madre diceva sempre che sarebbe stata una bambina – la faceva sorridere. Era così bella ed era così facile crederle. Quando sei nata tu è stato l’unico periodo in cui sono stato davvero felice.»
«E loro?» chiedo. Mi sento ancora gli occhi della ragazzina sulla schiena, anche lei vuole sapere.
«Loro sono la mia vita. Ma non è felicità, è quanto di buono arriva dopo che la felicità ti è stata tolta. Assomiglia più a una riparazione.»
Dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni, tira fuori il portafoglio. Lo apre e vedo due foto: lui abbracciato a una donna più giovane, votata all’ossigenazione dei capelli come a un culto, e i due figli, più piccoli di ora. Con le sue dita grandi fruga tra i lembi di pelle marrone e pesca, infine, un ritaglio di foto. C’è mia madre che mi tiene in braccio, io sono una neonata. Non abbiamo colori, siamo in bianco (la mia tutina, i suoi denti) e nero (i miei occhi aperti, i suoi capelli), tutt’intorno è grigio.
Glielo restituisco con un gesto lento.
«È l’unica foto di cui è gelosa mia moglie, anche perché ne ho così poche della mia vita precedente. Avverte che c’è qualcosa di inspiegabile tra voi e me» fa un sospiro, guarda un altro po’ la foto e poi aggiunge: «Che la scatto e se non sai spiegare, non sai rendere innocuo. Così la nascondo».
Puoi nasconderla, puoi farne quello che vuoi. Abito orgogliosamente le quinte della tua vita. In vece mia, va in scena una copia di me più giovane, una che non andrà mai a letto con qualcuno solo per sentire il suo nome pronunciato da un uomo al mattino.
Vorrei dirlo ma lo guardo e mio padre è un uomo incapace di sostenere il mio rancore e forse anche il mio amore. Cosa conta in fondo, siamo già in un altro punto rispetto a dove immaginavo. Questa è una fine, non un inizio. Mi alzo, mi passo le mani sul soprabito all’altezza del sedere per far staccare qualche foglia rimasta impigliata. Si alza anche lui.
«È meglio che vada ora» gli dico, e sono sincera: in realtà basta meno di un’ora per tornare a casa mia ma è meglio che vada, questo sì. Perché le mani sudano e non sono brava con gli addii e non è vero che non mi emoziona vederti.
Lo immagino tornare indietro, allontanarsi dall’epicentro che sono sempre stata, mio malgrado. Apro l’auto con il comando prima di raggiungerla, come faccio tutte le volte che mi sento in pericolo. Una volta dentro, interrompo l’apnea, respiro a fondo l’odore familiare degli interni. Fisso la cintura di sicurezza, parto. Forse non esiste casa, mi dico, non esistono case, ma solo automobili per spostarsi da un posto all’altro, per rincorrerci. Non mi fermo allo stop perché ho la testa per aria. Un uomo su un Suv frena evitando l’impatto, poi si attacca al clacson mentre sbraita.
Abbasso il finestrino.
«Non ci sono case ma solo macchine!» gli grido.
Tira giù il vetro pronto a litigare e mi chiede: «Come ha detto?».
«Non ci sono case ma solo macchine» ripeto, sorridendo.
E riparto, lasciandolo lì.
Sara Benedetti