Vivere alle prese con le derive esistenziali: «Morto a galla» è il racconto di Maddalena Crepet
Ci sono giorni in cui vorrei dormire di più. Ritardo il mondo. Stringo la testa al cuscino, tanto forte da provocarmi un principio di emicrania. Mi rigiro, mi chiudo su me stesso, mi appallottolo nelle coperte. D’inverno è più facile scomparire. Dall’estate, invece, non puoi nasconderti.
Nella mia dimensione casalinga e senza tempo, è nullo anche il senso di dovere. Non c’è l’allarmante necessità di alzarsi alla prima sveglia, né la soffocante colpa dell’ultima. Esiste un’unica dimensione, orizzontale, fatta di metrature di cotto, panni sporchi buttati ovunque, computer precari, rumori e odori dubbi.
Sono cresciuto con l’idea che tutto ciò che è lontano dal sogno, costi. E che a volte anche quello, costi. Ma sotto un’altra prospettiva. Nelle tasche dei jeans abbandonati sul pavimento, credo di avere a malapena quattro euro in spiccetti. Penso alla colazione al bar sotto casa, che stavolta, sì, sono costretto a pagare perché dei miei buffi il proprietario ne ha proprio le palle piene. Il cornetto mi deve bastare anche come pranzo. È indubbio che non ho spazio per tutto quello che si allontana dal sogno, per questo ci vivo dentro. Sguazzo in un fiume, che a volte si fa pozzanghera, a volte canale che mi porta al mare. Non ho paura di affogare, di essere sommerso dalle sue correnti imprevedibili. Mi hanno insegnato a nuotare. Non sono Phelps, ma mi accontento di poter rimanere a galla. Ecco, ora mi immagino così, al centro di quella piscina che sa di cloro, di piscio dei bambini che ancora se la fanno sotto, dentro i costumi con il logo del delfino. Non ci sono più corsie. Non c’è più l’allenatrice che mi urla dietro. Allunga le braccia. Di più, di più. Che vedi che bel corpicino ti verrà. Poi mi ringrazierai. Sì, poi ti ringrazierò. I tempi, stai attento ai tempi. Secondi? Ma quali secondi, decimi di secondo! Non lo vedi che quello ha tre anni meno di te, ed è già più rapido? Più rapido (o più ripido?). Galleggio, e basta. Non tocco con le dita delle mani le piastrelle quando arrivo, né con quelle dei piedi quando riparto. Non devo esibirmi in virate, tuffi strabilianti, nessuna mossa circense. Semplicemente ascolto l’acqua tapparmi le orecchie, glielo lascio fare. Lascio che mi entri ovunque. È tutto vuoto. Non ci sono rivali da battere, genitori da rendere orgogliosi, coach da soddisfare. Se non affondo, se non mi lascio permeare davvero, se non mi fagocita, quest’acqua puzzolente e salvifica, allora non mi farà nemmeno scendere giù. La danza dell’eterno galleggiante. Mi farò boa?
Una folata di vento entra da un’anta della porta finestra. Non è niente di sconvolgente, non muove le acque. Sposta appena appena la mia faccia dal lenzuolo sgualcito. Devo averlo spinto via con i talloni, e ora me lo ritrovo stritolato. La luce che filtra dallo stesso spiraglio stranamente non mi disturba. È ancora troppo tenue. Le vite, là fuori, si stanno incolonnando per il giorno in arrivo. Proprio come le mie sigarette, quelle che mi sono preparato raschiando nella busta del tabacco di Lollo. A volte gli rubo anche i filtrini, in cambio di un posto dove dormire. Scappa da un paio d’anni, o almeno così mi ha raccontato. Non lo conosco da molto, quindi non saprei dire con chiarezza da cosa stia scappando. Ho il forte sospetto che sia qualcosa di molto simile al mio. E ancora di più, che questo nostro coincida con niente.
Comunque i drummini che riusciamo a farci la sera, poco prima che scompaia mangiato dalle sirene della notte, sono almeno cinque o sei, ultimamente. Non ci va malaccio. Li sistemiamo sul cornicione del caminetto di casa della zia, quella in cui hanno sistemato me. Sono in fila come perfetti soldatini maoisti. Aspettano solo il momento in cui moriranno.
Non mi affretto a prenderne uno, a decidere da quale di loro inizierò. In fondo, sanno già tutto. Devo solo aspettare di scegliere chi sarà il primo. Ma me ne sto ancora un po’ a galla. Il cloro non mi irrita più la pelle come faceva da bambino, e non mi fa più venire i brufoli, come quando ero adolescente. È palese che sia passato diverso tempo da allora. Non entro più in nessuno dei due corpi, e non sono certo che la trasformazione mi abbia reso così attraente come prometteva l’allenatrice. Anche lei sarà già uscita di casa. Avrà lasciato il suo appartamento in via Gregorio VII – abiterà ancora lì? –, avrà dato da mangiare al gatto, si sarà lasciata coccolare per quei cinque minuti di tenerezza che si concede. Cinque al giorno, che tolgono il medico, e gli uomini di torno. Non so tutte queste cose perché questa è una di quelle storie da teen drama in cui la giovane promessa dello sport intreccia la passione per il nuoto con un altro tipo di passione. Non le so nemmeno perché è uno di quei prodotti sulle vicende di stalking. Non sono stato uno stalker di Annamaria Corvaccia, trentenne all’epoca, qualche graffio sugli avambracci poderosi, un taglio alla maschietto in un viso comunque troppo femminile, un appartamento in affitto in una zona che non ti definisce. Non sei una pariolina di Roma Nord, non sei una radical del Centro, non sei una borgatara di periferia. Non sei niente. Allora penso che forse anche Annamaria, nell’età che aveva, e che avrei quasi ora io, nei suoi sogni che custodiva stretti, sotto il costume con la scritta a caratteri cubitali COACH ANNAMARIA, forse anche lei galleggiava. Magari a fine turno, quando la piscina si liberava finalmente di bambini urlanti e piscianti, di adolescenti brufolosi e incazzati, di madri sposatissime e divorziate, di padri assenti ed esuberanti, forse anche lei faceva il morto a galla. Smetteva di pensare ai tempi, al cronometro che scorre, alla gola che fa male, al costume che taglia le cosce, alla cellulite che sta venendo, ai figli che bisogna fare, al compagno che bisogna avere, alla casa che bisogna comprarsi. Pensa a tutto quello che non è a pagamento. Lo tira fuori dalla tenuta sportiva, come quei pesciolini di imbottitura che tiene attaccati al seno. Ci si fodera le orecchie, con quella gommapiuma nascosta. Chissà se così arriva anche a lei, il rumore dell’acqua, incontrollabile. Se anche lei si lascia cullare in questa imprevedibilità.
Uno schizzo dell’irrigatore sul balcone si infila come un’ombra di ladro nell’insenatura là giù. Arriva fino ai miei piedoni da hobbit, sporgenti, a penzoloni nell’aria rafferma. Inveisco per un attimo contro mia zia. Poi, torno a pensare che è l’unica che mi abbia lasciato galleggiare, o che mi abbia dato il modo per farlo. Ora ci sono solo il suo sorriso buono, il suo caschetto quasi bianco. I fiori sul balcone sono freschi, e ballano nella luce libera delle prime ore della giornata. Con il dieci per cento di batteria che mi resta, scatto una foto: «zia, i tuoi fiori crescono da Dio». Guardo l’ora nell’oblò in alto a sinistra. Cinque e cinquantanove. Cerco la centralina dell’impianto che non ho mai cercato. L’acqua annaspa come stretta in una morsa, il sibilo accompagna i miei movimenti da sonnambulo. Nell’acquitrino che si è formato sopra le mattonelle mangiate dalla muffa, mi sdraio. Aderiscono al mio corpo, l’acqua fa da collante. Torno alla mia postura naturale, scoliotica. Vado bene così, coach?
Maddalena Crepet