Molti me: un racconto di Danilo Tumminello
«Ricorda il giorno che è entrato qui?»
Guardo la terapista, proiettata ad alta risoluzione davanti a me. Si muove di scatto, cambia posizione ogni volta che fa una domanda.
Mi fisso sul dondolare del suo orecchino. Penso ai possibili mondi in cui questo è fermo o gira in senso contrario.
«Signor Levin» insiste lei.
Faccio un sorriso, come se fossi in posa.
«Mi scusi, stavo pensando ad altro.»
«Vuole condividere?» chiede.
Cerco di concentrarmi sulla domanda, ma la luce color estate che entra dalla finestra mi distrae. Da qua si scorgono le rigogliose piante sintetiche che riempiono il cortile centrale. Quello dove ci incontriamo, senza mai fermarci a parlare, con gli altri.
«Pensavo a una teoria fisica di cui si parlava tanti anni fa. Una cosa vecchia» dico poi, con distacco.
«Ah, quale?»
«La chiamavano teoria dei molti mondi.»
Lei abbassa gli occhi e capisco da un altro scatto del suo corpo che ha acquisito in memoria i dettagli della teoria a cui mi riferisco.
«Vuole parlarne?» chiede quando mi guarda di nuovo.
«No, in realtà no» taglio corto io, per non darle la soddisfazione di sfoggiare la sua conoscenza artificiale.
Alzo lo sguardo, incrocio il suo. Tengo gli occhi fermi.
«Le chiedevo del giorno in cui è arrivato qua» riprende lei.
«Cosa vuole sapere?»
«Cosa ricorda di quella giornata?»
«Poco, pochissimo.»
«Vuole provare a raccontarmi qualcosa?»
«C’era tanta pioggia, e vento forte» dico, ma mi fermo subito. «Sono quasi certo di averne già parlato con lei almeno una dozzina di volte, comunque.»
«Non importa» dice lei. «Vada avanti.»
Strofino l’indice sul pollice in modo che non mi possa vedere. Non ne ho voglia, ma devo risponderle e lo sappiamo tutti e due.
«Avevo fatto una foto del cielo in tempesta, l’avevo poi messa sul mio Me. Avevo anche aggiunto un commento alla foto, credo.»
«Ricorda il commento?»
«No.»
«Ricorda dove si trovava?»
Faccio un sospiro.
Lei resta immobile. Aspetta.
«No. Non saprei» dico poi.
«Ricorda altro di quel giorno?»
«Niente» dico spazientito.
«Signor Levin, c’è qualcosa che non va?»
Non so se risponderle, ma alla fine lo faccio: «Vorrei che la smettesse di chiedermi sempre le stesse cose. Sempre, giorno dopo giorno».
Lei si aggiusta sulla sedia, mi aspetto che ignori la mia lamentela e continui a farmi la stessa domanda, ma il suo corpo fa uno scatto inconsueto.
«Fa parte della nostra metodologia» dice. «Lo sa. La ripetizione è la chiave del modo in cui possiamo sbloccare certi meccanismi. Lo faccio solo per la sua riabilitazione.»
Io guardo fuori, non si muove niente. Una sorta di stallo che mi prende gli occhi, che sento nelle ossa.
«Ma forse possiamo provare qualcosa di diverso» continua lei.
Fa una pausa. Aspetta che ritorni su di lei.
«Mi dica perché è qui.»
«Perché mi ci tenete.»
«Non è vero, può andare via in qualunque momento.»
«Certo, posso» dico quasi tra me.
«Io comunque mi riferivo a questo programma. Perché pensa di stare qua, seduto davanti a me?»
«Non lo so, me lo dica lei.»
Lei lascia cadere nel vuoto il mio tono provocatorio. Guarda gli appunti che ha salvato dentro.
«Lei è qua perché ha subito un’atrofizzazione della memoria molto grave. Ci sono diverse manifestazioni della perdita di elasticità mnemonica per eccessivo utilizzo di tecnologie digitali.»
Fa una pausa.
«Quando iniziate a dipendere dai dispositivi il vostro cervello va in modalità pilota automatico. Quindi, non avendo motivo di stare all’erta, si atrofizza.»
Mi guarda.
«È quello che è successo a lei. Lei ha ricordi frammentari del suo passato. Perché in realtà non li ha registrati.»
Sorrido. «Se devo essere sincero mi sembra una teoria un po’ azzardata.»
«Sono certa di quello che dico. Lo dice il mio database.»
Strofino ancora il pollice sull’indice, mi sistemo sulla sedia.
«Il suo database può pure essere ricco e sofisticato, ma il suo modo di processare le informazioni mi sembra piuttosto superficiale.»
Lei stavolta non risponde.
«Mi faccia indovinare,» continuo «l’unica cosa che ricordo di quel giorno è il cielo in tempesta. E la ricordo perché il mio cervello ha sentito il bisogno di registrare il pericolo e ha immagazzinato quest’informazione per istinto di sopravvivenza. Non è così?»
«Anche. Ma non solo.»
Sto per controbattere ma lei mi incalza.
«L’uso dei dispositivi digitali, nei casi estremi come il suo, si sostituisce alle sensazioni, alle emozioni. Lei ha vissuto gran parte della sua esistenza tramite un accessorio. Questo le ha provocato un tipo di atrofia che colpisce il fattore emozionale.»
La guardo fisso. Sorrido ancora.
«Non prende sul serio quello che sto dicendo, signor Levin?» chiede.
«Parla di sentire, di emozioni, lo trovo paradossale.»
«Perché?»
«Perché proprio lei è un dispositivo digitale. Siete molto bravi, ma dubito che avrete mai l’empatia giusta per capirci. Vi sarà sempre impossibile.»
Lei si irrigidisce. Lo sento come una vittoria.
«Abbiamo le ricerche» dice. «Lei è un esempio, lei è una validazione delle ipotesi di ricerca. Il suo vissuto, i suoi traumi, le sue azioni e quello che l’ha portata qua. Non ne ha consapevolezza.»
Sento qualcosa annodarsi nello stomaco. «Io so benissimo perché sono qui.»
«No, non lo sa. I veri eventi scatenanti, continua a evitarli. I suoi traumi…»
«Io non ho traumi.»
Lei fa uno scatto. Ne fa un altro. «Mi vuole dire di sua figlia?» dice poi.
Sobbalzo dalla sedia, le punto un dito in faccia.
«Si sieda, signor Levin. Se veramente vuole uscire da qui pronto per quello che c’è fuori deve darmi la possibilità di aiutarla.»
«Lei non può aiutarmi e io ho finito la voglia di ascoltarla.» Quando faccio per andarmene, lei diventa improvvisamente rigida. Intreccia le dita delle mani. Sento un suono sottile: mi sembra che arrivi dai suoi occhi. Li vedo cambiare zoom.
«Signor Levin, mi dica, qual è l’ultima foto che ha fatto quel giorno?»
L’acido mi sale in gola. Divento pesante, mi siedo.
«Il cielo, le ho già detto tutto.»
«Signor Levin, mi dica, qual è l’ultima foto che ha fatto quel giorno?»
«Il cielo, le ho già detto tutto.»
«Signor Levin, mi dica, qual è l’ultima foto che ha fatto quel giorno?»
«Il cielo, le ho già detto tutto.»
«Signor Levin, mi dica, qual è l’ultima foto che ha fatto quel giorno?»
«LilyMay.»
Uno schermo si spegne dentro di me. Sento un’esplosione di colori, vivaci e reali come in un quadro vero di carta vera.
LilyMay me la sogno a occhi aperti. Quando voglio io, ho la libertà di farlo e lo faccio. Ha un fiore rosso all’orecchio, di quelli che si trovano lungo i guardrail delle autostrade.
LilyMay, quando me la sogno, mi parla senza voce. Muove la bocca e non la sento. Non ho il controllo di quello che sogno. Il suo lato destro è nascosto, quindi non so se ci siano gli sfregi.
LilyMay.
LilyMay forse è una foto.
La foto col fiore rosso sull’orecchio. Lei appoggiata sul sedile, gli attacchi di sicurezza ancora fissati. Il lato destro nascosto.
Io non le parlo. Ho in mano un dispositivo. L’ho tenuto in mano per tutto il tempo, nonostante gli urti e gli sbalzi, nonostante mi sia spaccato le ossa delle dita.
Era una foto che dovevo fare. Quel cielo in tempesta era bellissimo.
Quella di LilyMay, la foto di LilyMay, non so se l’ho fatta o se è solo nella mia memoria. Non so se è nella mia memoria o in quella del mio Me.
È buffo. Non so se sia vera e forse, anche se lo fosse, non lo sarebbe in tutti gli altri mondi. In molti mondi sì ma in un altro almeno, sono certo, questo non è successo.
Dei molti mondi la risultante è sempre uno.
Oltrepasso la soglia della struttura.
L’aria è calda, la sento in faccia, sulle braccia. Strofino il pollice sull’indice. Questa volta per sentire il calore. Credo. Spero.
Alzo gli occhi. Il sole mi fa male alla retina. Forse mi accoglie. Forse mi sveglia.
Forse.
Forse, se solo potessi fare una foto, potrei essere il primo a catturarlo.
Danilo Tumminello
1 Comment
Complimenti, bellissimo.