Un uomo alle prese con l’ultima serata della sua vita. «L’ultima cena dell’anno» è il racconto di Marina Ciangoli

 Un uomo alle prese con l’ultima serata della sua vita. «L’ultima cena dell’anno» è il racconto di Marina Ciangoli

Illustrazione di Linda De Michelis

Le luci dell’albero di Natale parlavano in un codice morse sconclusionato, oppure poteva essere che anche loro si sentissero poco bene. Il dottore era rimasto solo al tavolo da qualche minuto. Fissava il tovagliolo e si chiedeva che fine avessero fatto tutti.

Il tizio dagli abiti tagliuzzati si avvicinò alle spalle del dottore. Si avvicinò e prese posto alla sua destra.

«Dottore, credo che ormai manchi poco.»

«Di già?» Guardò l’orologio sopra il camino elettrico a vapore acqueo.

«Non ho controllato l’ora, ma a naso manca poco. La cena è finita e mi piacerebbe essere puntuale. Per di più la tua famiglia è tutta di là e non vedrebbe il momento.» Il tizio studiò il polso spoglio e continuò. «E con questo voglio dire che ci tengo a essere in anticipo. Come si era stabilito.»

Il dottore si guardava intorno in cerca di un appiglio, di un ricordo. Stabilito da chi? C’ero anch’io quando si era definita la faccenda di stanotte? «Mah, non mi viene in mente» mormorò fra sé e poi ristabilì il giusto volume della voce. «Non possiamo aspettare un altro po’? Almeno per vedere com’è l’anno nuovo?»

«Nah…» Il tizio spiegò e stirò uno dei tovaglioli, con calma. «Cambia solo il numero finale. Ragiona piuttosto su quelli che dovevano fare la prima visita all’anno nuovo e ora niente, un nome che resterà senza una faccia.»

«Già.» Il dottore fissò il suo riflesso distorto e spezzato sulle posate lasciate nel piatto, come se ascoltasse attento i suggerimenti di cui andava a caccia. «Perché hai i vestiti rotti? Stasera poi…» chiese, col tono paterno che usava durante una prima visita con un nuovo paziente.

«Beh, è una delle sere più dure. Siete così ostinati. Una lamentela continua sulla vostra vita, ma se si tratta di venire via con me, e ve lo chiedo con gentilezza, non se ne parla.»

«E così…»

«È così che lacerate le mie vesti.»

«Ti saltano addosso, ti graffiano, ti aggrediscono con…» il dottore gesticolava con le mani, come a scartare delle opzioni sotto forma di carte da gioco. «Io con questo coltello, potrei…»

«Oh no, non è con le mani o con delle armi improvvisate che lo tagliuzzate, bastano le vostre parole sfiancanti.»

Le luci rimaste sospese in una lunga sillaba non suggerivano nulla al dottore.

«Questa fatica è snervante.»

«Quale fatica?» Il tizio fissò il dottore di sbieco per un attimo, per poi passare le dita su un nuovo strappo sopra il polsino sinistro. Cercava di unire i lembi, come se fosse una pratica da studiare con attenzione.

«Di tenere tutto in funzione mentre non vuole funzionare più. Come faccio?»

«Lascia stare, andare. Che si riposino!»

«Se li lascio riposare non è che poi si riprendono e tornano a funzionare.»

«Lo so.»

«E quindi?»

«Quindi, caro dottore, lascia che si riposino, che si calmino, che si fermino

«Così? Senza senso? Proprio a me? Mi pare di fare brutta figura, in questo modo. Che diranno?»

«E che devono dire, dottore. Che è arrivata la tua ora e te ne vieni via con me.»

«Sembra l’inizio di una barzelletta. C’era una volta un cardiologo…»

«Che pensava di farmi perdere tempo.»

«Non si può aspettare? Giusto un po’.»

«Cosa?»

«Che tornino mia moglie e le bambine. Poi di notte, magari…»

«Quando arrivo, il sistema cambia. Te ne accorgerai. Possiamo stare qui tutto il tempo che vuoi, ma sarò lo stesso puntuale. Anzi, come già ho detto, stasera, sono in anticipo.»

«Perché con me sei in anticipo?»

«Lo si era stabilito, non ricordi?»

«No! Non ricordo di aver discusso o pianificato nulla del genere.»

«Non è quello che ho detto. Ti ho solo fatto presente che è qualcosa di stabilito.»

«Va bene.» Il cardiologo si voltò verso sinistra per osservare i riflessi delle luci sul marmo. Nessun appiglio. Con gli occhi lucidi e il volto accaldato aggiunse: «Va bene, ma perché?».

«Voglio un click per te.»

«Un che? Basta così!» Il dottore spazzò via le posate dal piatto con la sua immagine sciolta come il miele su un bastoncino. «Chi meglio di me può risolvere un problema al cuore? Tu stai pure qui, stira i tovaglioli, fissa le luci sull’albero, traduci il codice morse, cuci i tagli del tuo abito, che mi frega, io vado di là nel mio studio e ti faccio vedere come in un cazzo di click mi sistemo a regola d’arte.»

«Fammi vedere, dottore, sono qui per questo.»

Il dottore fissò per alcuni istanti al di là della testa del tizio. Da lì immetteva calma nel suo respiro cadenzato. Fece per alzarsi e le luci dell’albero si bloccarono accese, aumentando di intensità. Si spensero e di nuovo si accesero energiche. Buio e ancora luce in una scia febbrile. Buio. Luce. Le lampadine si spensero con un sibilo acuto e prolungato. È solo allora che il dottore, calmato dal respiro lento, si sforzò di alzarsi dalla sedia, quando vide che la sala da pranzo si spezzava.

Il vapore del camino invase l’ambiente e ogni micro nuvola acquea inglobò parti della sala davanti alla vista del dottore. Gli appariva un puzzle sconclusionato e molle della stanza, che gli fece venire la nausea. Il respiro si bloccò quando le fiamme fuoriuscirono da un frammento del camino, che ondulava tra un pezzo fluido del lampadario, un bracciolo del divano e un frammento con l’angolo della foto di famiglia.

Ogni immagine spezzettata finì per assottigliarsi come velina fino a diradarsi e poi dissolversi.

Davanti a sé, il dottore poteva vedere solo il tizio che gli strinse il volto tra le mani, gli si avvicinò abbastanza da sentirne l’odore d’anice della pelle. «Ora mi è chiaro

«Bene. Adesso che siamo puntuali, andiamo.»

La stessa sequenza di luce e buio si ripeté, finché non si aggiunse, a breve distanza, un ultimo punto di luminosità.

Marina Ciangoli

Blam

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