Luci riflesse: un racconto di David Valentini
Quando esco dall’ultimo cliente sono le sette. Ovunque ci sono persone che sbraitano al telefono come se da quelle chiamate dipendesse il futuro della razza umana: sembriamo tutti delle Sarah Connor convinte di una imminente rivolta delle macchine.
A destra svetta il Bosco verticale. Immagino rampolli della Milano bene sniffare coca dal culo di qualche tipa più fica di me; qualcuna che si fa pagare quanto il mio stipendio solo per degnarli di una parola.
E pensare che un tempo odiavo questa città. Lo facevo senza un reale motivo, come si odiano le cose che non conosciamo: Milano, le scarpe chiuse, gli abiti da lavoro, chi mangia carne. E i capodanni in famiglia, il clima natalizio, gli stronzetti delle scuole private.
Poi impari a conviverci. Sarà che cominci a frequentare più loro di quelle esistenze martoriate che per anni hai chiamato amici. È un lento corteggiamento: alla fine cedi.
Certo, alcune cose le odio ancora. La Chiesa, per esempio. Ma – come direbbe la me di otto anni alla maestra delle elementari – è stata lei a cominciare. Comincio a capire invece quelli che credono in Dio.
E la destra italiana. La destra italiana la odierò sempre, e non perché sono stata una zecca lesbica per una vita. E neanche perché fa fico odiare la destra. Semmai è il contrario.
È che sono proprio delle teste di cazzo.
Dall’altra parte della strada c’è il palazzo dell’Unicredit, dove dovrò andare domani. L’ennesimo mostro di vetro che deturpa l’orizzonte, come quell’obbrobrio della Bnl che oscurava il cielo davanti alla nostra vecchia casa sulla Tiburtina. Passavamo notti intere a osservare le luci della stazione riflettersi là sopra, Elisa e io. Era una vita fa.
Un tempo ero anche convinta che le banche fossero la rovina del mondo. Mi arrogavo il diritto di dirlo perché frequentavo Economia. Ma cambierò le cose, dicevo sturandomi un negroni in quel postaccio su viale Ippocrate. È grazie a discorsi come questi se sono finita a sgobbare in un bar per cinque anni, a blandire i clienti e le loro battute squallide, per arrivare la sera con la schiena a pezzi e chiedermi che fine avessero fatto i quattro spicci che guadagnavo – probabilmente spesi nel locale accanto, in attesa di tempi migliori.
Oggi invece trascorro le giornate col culo su una sedia. Mi alzo per una pausa caffè e quando torno scrivo Cordiali saluti, resto a disposizione.
Non è poi così male. Capita pure che mi mandino in giro, come oggi. Allora prendo un treno e con la musica nelle orecchie osservo l’indolenza di un paesaggio mutevole. Vedo gente, faccio cose, come in quel film di Moretti: cioè tratto termini, faccio firmare contratti, passo ore in videoconferenza con i capi che iniziano a chiamarmi per nome. Silvia, ottimo lavoro. Non più signorina Castelli. Silvia.
Domani forse avrò già cambiato idea su tante cose ma oggi – oggi va bene così.
Non ho voglia di rientrare in albergo. Potrei fare un salto al Pop ma l’altra volta per poco non finivo a letto con quella. E ora che le cose iniziano a ingranare con Miriam non voglio casini.
Quindi mi allontano dal Rainbow district. Vado verso il Castello Sforzesco. Metto le cuffiette, sparo una canzone dei Fask – Non potrei mai dimenticarmi di te, solo perché mi preghi di non vederti mai più – e passeggio. Intorno a me, marionette mute: appoggiate ai muri, attaccate al guinzaglio di un cane, sedute su scooter o incastrate negli abitacoli. Quando il sole va giù, quante paure. Passo davanti a sushi arredati come Maison du Monde e tramezzinerie che pare vendano filetti di wagyu. Sotto l’arco di Porta Garibaldi dei pischelli trafficano con i monopattini Lime e un senzatetto dorme acciambellato come un gatto randagio.
È così bella Milano, questa sua civiltà nordeuropea. È così indecente Milano, questa sua spocchia inossidabile. La sento uguale a me: si è sempre creduta migliore di come fosse in realtà.
Quando arrivo alla Fondazione Feltrinelli, il manifesto mi fa perdere un battito.
È lei.
È lei quella che sorride nella foto in bianco e nero. Ha i capelli rasati, come li portava anni fa. Guarda dritta in camera. Riesco solo a immaginare la fatica che deve aver fatto per non distogliere lo sguardo. Per non sbottare a ridere. Per non torcersi le dita in attesa della fine di quel supplizio.
Sotto, la copertina del libro. E poi la scritta: Elisa Baccano presenta Le belle rovine, Feltrinelli. Modera Anna Stopponi, che non so chi sia ma pare una importante.
Il primo istinto è tirare dritto. Invece mi ritrovo all’ingresso a chiedere dove si tenga la presentazione. Il ragazzo mi indica la sala in fondo, poi resta a guardarmi esitare. Posso aiutarla? chiede. Aiutarla, rispondo. Alza un sopracciglio. No, balbetto, è che non sono abituata al lei. È la giacca, farfuglio senza sapere perché. Lui sorride, in imbarazzo per me.
Silvia, mi dico mentre raggiungo la sala, sei una demente.
Lei è lì, sul palchetto, le gambe accavallate come tutti quelli che parlano di libri. Con l’indice si gratta sotto al naso. L’altra sta parlando di una scena ambientata a Torino. No, di una fiera. Da quaggiù non capisco bene ma una cosa è certa: quella stronza è più bella di me, è più colta di me e di libri ci capisce sicuro più di me. Vorrei prenderla a schiaffi perché può permettersi di farle domande a cui lei non nega mai una risposta. L’ultima volta che le ho scritto, su WhatsApp è rimasta solo una spunta grigia. Era oltre due anni fa. C’era ancora il coprifuoco.
Rintanata nel mio angoletto, dietro la marea di teste che affollano la sala – qualcuno scatta foto, qualcun altro registra; quasi tutti hanno il libro fra le mani – sento la ragazza che ha condiviso con me un bilocale minuscolo e i suoi anni più crudeli parlare in un modo che non riconosco. Cita nomi, esperienze, città che non ho vissuto. eParla di sua madr e del primo libro che ha pubblicato, ispirato alla sua malattia. Non mi nomina mai. Io non esisto. Nel buio del mio rifugio minuscolo, osservo lei brillare sotto quei riflettori abbaglianti.
Che stupida sono. Ma perché sono venuta qui? Cosa mi aspettavo? Forse – ancora una volta – di far parte della sua scrittura. Della sua vita.
Muovo dei passi verso l’uscita quando quella Anna riprende la parola. Nei ringraziamenti, dice, citi diverse persone. A loro modo tutte hanno portato a questa seconda opera.
È vero, risponde lei. Ognuna di loro.
Anche questa S. che compare alla fine? È l’unica di cui non riporti il nome.
Lei abbassa lo sguardo un istante. Trattiene una smorfia. Almeno credo. Da qui è difficile capire. Però si torce le dita. Quello sì. Quello lo vedo bene. Guarda la presentatrice, spazia fra il pubblico. Torna a guardarla. Sì, dice. Soprattutto S. Senza S. non sarei la donna che sono oggi. Le devo tutto.
Sembra una persona importante, dice Anna. E io la odio perché sembra voglia sminuirmi.
Lo è stata, fa lei. Con lei ho vissuto il mio periodo più felice. E anche quello più distruttivo. È grazie a lei se ho ripreso a scrivere dopo tanto tempo.
Caspita! dice la tizia. Beccati questa, stronza, penso io. E dov’è ora? chiede poi.
Lei la guarda. Fa una di quelle smorfie impacciate che conosco bene. Quelle non sono cambiate affatto. Poi si volta verso di me. Non posso sbagliarmi. Fissa proprio me, e dentro sento qualcosa vibrare – tipo un campanaccio tibetano colpito da una legnata – e la testa riempirsi di tutti i nostri buongiorno, i compra la pasta integrale, i ti amo, i vaffanculo, e non avevo mai squirtato, e mamma sta male, ho perso il lavoro, e ti amo, stronza, posso spiegarti, oddio vengo, il palazzo della Bnl ha la forma di un incrociatore imperiale, e andiamo via da qui ti prego, ti odio, e sparisci sparisci sparisci.
Sul volto di Elisa si forma un sorriso. È là fuori, dice. Da qualche parte, a vivere la sua vita.
E io, che non ho parole da dedicare a questo attimo – che nulla so pensare di quello che è appena accaduto –, ricambio il suo sorriso.
Faccio solo un cenno con la testa e mi attardo un istante appena nello splendore che è stato il nostro passato prima di lasciare la sala.
David Valentini