Riempire un vuoto con un’ossessione: Luce artificiale è il racconto di Emanuel Massa

 Riempire un vuoto con un’ossessione: Luce artificiale è il racconto di Emanuel Massa

Illustrazione di Francesca Galli

Mentre fissavo la cassa di mia madre scivolare in un buco, mi venne in mente l’idea che da quel momento in poi avrei collezionato lampadine. Non appena rientrato a casa, decisi di riorganizzare i miei spazi in modo idoneo al proposito. Catalogai le cose irrilevanti, e le fotografai una per una. Dopodiché le misi in vendita on line a prezzo d’affare, e tenetti solo ciò che era necessario alla sopravvivenza: il water, il letto e il frigorifero. Giorno dopo giorno le cose cominciarono a sparire e lo spazio a diventare spazioso. Talmente spazioso che l’affitto che pagavo divenne più giustificabile di quanto non fosse prima. Questo pensiero mi sollevava, e mai, da quel momento in avanti, ebbi nostalgia del tempo in cui camminare significava modificare il cammino per evitare di urtare qualcosa. Quanta energia ho sprecato in vita mia, pensavo sentendomi libero per la prima volta, e forse persino più intelligente degli altri. Ma la spaziosità era solo una fase temporanea: col tempo avrei rioccupato gli spazi come si confaceva alla mia passione. Li avrei rioccupati in modo più scaltro: li avrei rioccupati tenendoli vuoti. E già mi sentivo grande per il fatto di riuscire a godere della mia condizione nonostante fosse ben lontana dal traguardo. Mi pare che a volte la gente voglia porsi un obiettivo e raggiungerlo un attimo dopo, e quindi si dimena come i pesci sugli scogli. Aprivo il frigo, mordevo una testa di sedano e osservavo le stanze di casa. Avrei cominciato dal salotto, che è anche cucina, in quanto offriva più opportunità delle altre, per poi proseguire col bagno, camera mia, e infine camera di mia madre. Forse a non tutti è noto che le lampadine si caratterizzano per un’enorme varietà di forme, colori, alimentazione, intensità. Tonde, lunghe, piatte, bianche, gialle, rosse, a incandescenza, alogene, fluorescenti, fluorescenti tubulari neon, a induzione magnetica, e così via. Dopo una serie di attente ricerche feci un ordine di cinquecento lampadine, e non una era la stessa di un’altra. Nell’attesa che l’ordine arrivasse chiamai Vinicio, l’elettricista, e gli chiesi un preventivo per l’installazione di cinquecento tra prese elettriche, cavi, circuiti e interruttori. Lui mi rispose che mi sarebbe costato molti soldi, ma alla fine lo convinsi a farmi uno sconto per l’acquisto in stock. E comunque, con la vendita delle cose irrilevanti avevo racimolato un gruzzolo dignitoso che, aggiunto ai ventunomila euro ereditati dalla buon’anima di mamma, iniziava a diventare una cifra ragguardevole. Quando si tratta di ciò che amo, io non bado a spese.

Il mese dopo, quando mia moglie tornò dal suo business trip milanese e trovò la casa svuotata di tutto e i muri tappezzati di toppe elettriche e interruttori, non la prese bene. Per farla breve, mi divorziò e si trasferì per conto suo. Io non ho mai amato i trasferimenti per lo sforzo che richiedono; nel caso di mia moglie non fu drammatico – non c’era rimasto quasi niente da portar via –, mi sentii sollevato a sapere che, nella tristezza generale della separazione, le avevo risparmiato almeno quella fatica. Prima di andarsene aprì il frigo, afferrò una testa di sedano e uscì dalla porta mordendola furiosamente. Separarsi non è bello, ma la nostra relazione, come una lampadina alla fine, già sfarfallava da prima; per cui accettai questo fatto come un qualcosa di noto da tempo e che si attende solo che succeda.

Quando si ha un obiettivo nella vita, è difficile vedere tutto il resto. La mia ormai ex moglie definì questo mio proposito col termine: ossessione. È una parola che io non amo per via delle implicazioni psicologiche negative che possiede. Ad ogni modo, mi verrà perdonata questa digressione nella mia vita privata che poco ha a che fare con il resoconto dei miei progressi in ambito lampadinistico.

Il soffitto delle stanze era ricoperto di luci tubulari neon, intervallate ognuna da due alogene 230V, ma eviterò di entrare nel dettaglio in quanto non tutti conoscono i termini tecnici della disciplina. I muri del salotto smisero di essere bianchi e nebbiosi e si schiarirono in un cielo cangiante, perlaceo, sinuoso nelle curve di nubi, pieno di riflessi inaspettati e impressionante, a livello mitologico, come il dorso di un drago di vetro. Faccio fatica a descrivere a parole l’emozione. Svegliarsi divenne eccitante, perché anche i sogni mi sembravano spenti rispetto alla mia casa brillante. La luce immensa cancellava tutti i bordi delle cose, e io avevo imparato a addormentarmi senza il buio.

Ma non bastava. Mi sembrava che ci fosse ancora spazio da riempire. Così acquistai altre cinquecento, mille, millecinquecento lampadine. Da ogni rivenditore, on line e off line. Dalla Svezia, dal Giappone, dall’India, dall’Uruguay. Nei mercatini dell’usato misi mano su certi cimeli rari; lampadine appartenute a personaggi famosi, lampadine dai filamenti d’oro invece che di tungsteno. A forma di lepre selvatica e di cattedrale fiamminga. Esaurito lo spazio per le connessioni elettriche nei muri e nel soffitto, continuai a collezionare lampadine spente. La stanza di mia madre fu l’ultima, in quanto la meno utilizzata, e la riempii a tal punto che non fu più possibile entrarci senza correre rischi. Tutti i pezzi più rari della collezione sono là dentro, ma temo che non li rivedrò mai più, se non al costo di distruggere qualche lampadina e finire al pronto soccorso. Per quanto riguarda le altre stanze, lasciai un po’ d’aria che mi consentisse almeno una seppur minima manovra di movimento. Arrivai al punto che divenne possibile muoversi solo strisciando i piedi, e lentamente. Spostarmi da una stanza a un’altra mi richiedeva talmente tanto tempo e impegno che le giornate volavano via nel tentativo di arrivare al frigorifero; nel semplice gesto di recarmi al bagno spendevo ore, forse giorni interi, così come nella minuziosa operazione di sollevamento delle lenzuola. Mettermi a letto richiedeva un’attenzione nuova e una grande cura di movimento. Ma mai, e per niente al mondo, avrei più rinunciato a quella sensazione di sprofondare nel sonno accarezzato dal fresco delle lampadine spente, dal calore di quelle accese. Mai avrei potuto di nuovo addormentarmi senza ascoltare il tintinnio gentile di quel reciproco sfiorarsi. Muoversi in una casa piena di lampadine non è angosciante come muoversi in una casa ammobiliata: i mobili vanno aggirati, ma le lampadine, se smosse pian piano, ti lasciano passare in qualunque direzione, senza che tu debba modificare la tua traiettoria. Talvolta mi chiedevo, sì, talvolta mi si insinuava nella mente il pensiero: cosa sarebbe successo se mi fossi scaraventato su quell’avvicendarsi di vetro e tungsteno, mi chiedevo, e mi chiedevo che sarebbe successo se avessi disturbato il drago di vetro pestandovi i piedi sopra, macchiandolo col sangue della mia carne lacerata dalle sue squame affilate. Mi chiedevo, talvolta, se tutto il vapore di mercurio contenuto in migliaia di lampadine sarebbe stato sufficiente ad avvelenarmi. Non nego, con un po’ di vergogna, di aver indugiato in queste curiose follie, di tanto in tanto. Ma al di là di questi pensieri impertinenti, non mi dimenai mai come i pesci sugli scogli. Al di là di queste suggestioni affascinanti, continuai a muovermi con minuzia, con lentezza, e non mi azzardai più a rischiare un movimento repentino.

 

Emanuel Massa

Blam

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