Letteratura russa: un racconto di Filippo Avigo
«Siete bellissimi» dice Marco, guardando solo me. Bofonchia con la cadenza triste che usa sempre quando è con noi, senza degnare Giacomo di un’occhiata.
«Neppure voi scherzate» provo a sdrammatizzare io, rivolgendomi a Carla. Sono tre parole appena, ma bastano ad aggrovigliarmi la lingua. Le sillabe mi escono a fatica, ci metto molto più del necessario per pronunciarle. E arrossisco come quando avevo dodici anni.
Per tranquillizzarmi provo a mentire a me stessa, ipotizzo che la balbuzie sia dovuta al fatto che non ha proprio senso fare complimenti a Marco per il suo aspetto fisico. Ha un viso davvero affilato, troppo. Per non parlare del naso enorme che si ritrova, o delle spalle ossute. No, la bellezza è un’altra cosa.
I miei miseri tentativi naufragano quasi subito. È sufficiente un movimento del suo sopracciglio per far sì che un calore dolcissimo mi avvolga. Darei qualsiasi cosa per sentire le sue mani che mi accarezzano, darei qualsiasi cosa anche solo per poterlo sfiorare.
Ovvio che mi trattengo, comunque, mica sono pazza. Mi limito a constatare, come faccio ogni volta che ci vediamo, di aver sbagliato i tempi. Questa cosa mi fa disperare, però cerco di consolarmi pensando che forse è la stessa sensazione che prova lui, nonostante con la mia amica Carla – sua ormai irrimediabile moglie – sia sempre gentile e affettuoso, a volte scherzoso in un modo che se Giacomo facesse così con me io mi scioglierei.
Fino al loro matrimonio non sapevo neppure chi fosse, ero amica solo di lei. Marco non è di qui, si sono conosciuti al lavoro appena un anno prima di sposarsi e io non avevo ancora avuto occasione di incontrarlo. Carla mi aveva fatto vedere qualche foto, certo, ma le immagini digitali mica rendono giustizia; la mitezza del suo sguardo si nascondeva dietro un ciuffo di capelli nerissimi, era impossibile percepire la serenità che sanno infondere i suoi occhi.
Non ho avuto modo di capire prima chi fosse e così, alla fine, è successa la cosa più assurda: ho incontrato la mia anima gemella, la mezza mela, l’unico uomo di cui avrei mai potuto davvero innamorarmi, il giorno stesso in cui si sposava. Con una delle mie migliori amiche, peraltro. E quando anch’io avevo un marito ormai da due anni. Neanche mi fossi trovata in una di quelle commedie romantiche che ho sempre odiato.
Mi è bastato guardarlo mentre entravamo nella sala dove si sarebbe svolta la cerimonia, per capire che uomo è. E ho fatto una fatica enorme a trattenermi. Avrei voluto urlare, prenderlo per un braccio e portarlo via. O almeno provare a fermare lui e la sua ineluttabile consorte per spiegare l’errore clamoroso che stavano per fare. Sarebbe stato molto meglio se Marco, con tutta la sua bontà e la sua purezza, si fosse subito messo insieme a me.
Lo avrei fatto anche per Carla, comunque. La conosco da una vita e so benissimo che avrebbe potuto essere più felice con un altro genere di uomo, uno in grado di farle vivere le emozioni forti che ha sempre cercato. Ma in mezzo a tutta quella gente mica ce l’ho fatta, mi sono paralizzata. Così ho seguito la cerimonia in silenzio, immobile come un blocco di pietra, soffrendo come non mi era mai capitato. Al momento delle congratulazioni quasi non riuscivo a salutarli e, a cena, sono rimasta tutto il tempo in disparte, senza toccare cibo, scusandomi con gli invitati seduti al mio tavolo per la nausea che mi era venuta a causa di una recente intossicazione alimentare, inventata sul momento senza troppa fantasia.
Il peggio però doveva ancora arrivare: Carla e Marco hanno deciso di vivere nella città in cui all’epoca lavoravano entrambi, a duecento chilometri da qui, e hanno avuto due figli uno dopo l’altro. A quel punto per lui esisteva solo la famiglia. Ma anche quello mi piaceva, seguivo le sue gesta a distanza e ciò che mi raccontava sua moglie lo rendeva ai miei occhi ancora più attraente. E irraggiungibile.
Adesso, quando va bene, ci vediamo un paio di volte l’anno, tutte e due le coppie insieme ovviamente. Non abbiamo avuto mai neppure un minuto per scambiarci una parola io e lui da soli. I nostri banalissimi incontri si tengono soltanto quando loro tornano in paese per visitare i parenti di Carla. Non ci è mai passato per la testa di andare una volta noi a trovarli, o di vederci a metà strada. Per Giacomo sarebbe improponibile.
Sprechiamo quelle poche ore a scambiarci complimenti, parlando di quello che abbiamo fatto nei mesi precedenti e di quanto sono cresciuti i nostri figli. Perché pure io e Giacomo ne abbiamo avuto uno, non so nemmeno come sia potuto accadere. E ci congratuliamo a vicenda perché sono belli, bravi, educati. Però parlano soprattutto Carla e mio marito, io e Marco ci accontentiamo di guardarci negli occhi.
È strano che i nostri coniugi non se ne accorgano. Continuano a parlare di cose inutili – delle vacanze che abbiamo appena finito e di quelle che vorremmo fare, del lavoro che stenta a ingranare, di amici comuni che non riusciamo più a frequentare – mentre lui e io stiamo quasi sempre zitti.
«E in vacanza avete letto qualcosa?»
Oggi è una delle rare volte in cui provo a farmi violenza, propinando alla coppia una innocua domanda. Forse voglio solo avere conferma di poter uscire dai balbettamenti in cui il complimento di Marco mi ha sprofondata. Ma immediata mi coglie la sensazione che le mie poche parole gli illuminino per la prima volta il sorriso.
Carla, come immaginavo, sgrana gli occhi per l’assurdità della domanda, e anche lui quasi non risponde. Bisbiglia solo due titoli, poi però aggiunge: «E voi?».
Si capisce benissimo che il voi è per me. Ma io la presenza di spirito non so proprio cosa sia, non sono mai stata brava a trovare le risposte giuste. Qualche parola inizia a formarsi nella mia testa quando ormai è tardi, Giacomo sta già sciorinando il suo eterno pippone su Carver.
«Oh come mi piace, che meraviglia i suoi racconti.»
E mica lo dice solo una volta. Lo ripete più che può e in tutti i modi, vuol essere sicuro che a nessuno rimanga alcun dubbio. Io mica lo contraddico, ci mancherebbe, Carver è una lettura degnissima. Solo che gliene sento parlare da quando lo conosco, se va bene quei libri ha smesso di leggerli vent’anni fa. A dire il vero, da quando lo conosco un libro in mano non gliel’ho mai visto, a parte qualche biografia di esponenti del punk rock britannico, meglio se deceduti.
«E tu Rosanna?» chiede Marco infilandosi con garbo tra due frasi di Giacomo. «Pure a te piace Carver?»
Io sollevo appena gli occhi, stupita, lo guardo di sbieco. Un guizzo fugace delle pupille lo fa sembrare meno gentile. Di sicuro lo fa apposta, sa benissimo che ho studiato Letteratura russa, che per me i russi sono un’altra cosa.
Però subito mi ricredo. No, la sua non è cattiveria, vuole solo giocare un po’ con me. E io ci casco tutta intera, senza esitazioni. Inizio a parlare delle mie letture estive, dei resoconti del viaggio di Čechov a Sachalin e dei racconti che Bulgakov scrisse quando era un giovane medico. E poi del Quaderno azzurro di Charms, della rilettura di Oblomov, ma anche di autori non russi che ho apprezzato di recente. Come Gospodinov.
Mi eccito come se le sue dita delicate mi stessero sfiorando, inizio a parlare tremando. E continuo, a lungo, assecondando il calore che mi pervade mentre lui, respirando piano, osserva le mie labbra che si muovono. Giacomo adesso mi guarda perplesso, mentre Carla si alza, stringendo forte le braccia che tiene incrociate sul petto. Marco invece mi sorride appena, con gli occhi socchiusi. Come se stessimo facendo l’amore.
Filippo Avigo