L’assassino: un racconto di Miranda Demichelis

 L’assassino: un racconto di Miranda Demichelis

Illustrazione di Linda Demichelis

Dicevi che nel palazzo c’era un assassino. Si nascondeva nelle viscere di mattone, da qualche parte nel complicato apparato arterioso delle cantine buie dove solo i più coraggiosi sapevano addentrarsi. Tu eri una di loro. Tu nel buio ti ci tuffavi senza tremare perché di farti male non te ne fregava niente. Le sbucciature sulle ginocchia erano solo il segno che sapevi ancora perdere qualcosa. Ma dell’assassino, invece, avevi paura.

Non l’avevi mai visto ma sapevi che c’era, e disperata tentavi di convincerci della sua esistenza. C’era. Avrebbe colpito. E per questo, dovevamo scappare. Tua madre ti osservava preoccupata, prenotava la psicologa e tu a lei ripetevi la stessa cosa. Tua madre si incazzava perché la psicologa diceva che era normale, i bambini che affrontano cambiamenti drastici attivano meccanismi di difesa per appigliarsi a fantasie talvolta inquietanti. Stia tranquilla signora, sua figlia si riferisce all’assassino della sua tranquillità domestica. Mi avevi raccontato che tua madre per poco a quelle parole non le aveva messo le mani addosso, perché l’assassino della tua tranquillità domestica sentiva di essere lei, lei che aveva divorziato da tuo padre. Che ne sa quella stronza, diceva, figli nemmeno ne ha. E tu lo ripetevi con un ghigno di scherno, mentre mi preparavi il caffè. Avevamo undici anni ma giocavamo a fare le adulte. Il caffè lo prendevamo a merenda sul balcone, sedute a osservare la vita del cortile come le signore anziane, accarezzando distrattamente il tuo gatto che miagolava ai nostri piedi. Ora mi rendo conto, e penso lo sapessi anche tu, che quella è stata la stagione in cui abbiamo smesso di essere sorelle. L’attrazione simbiotica che aveva permesso alle nostre cellule di crescere insieme e nella stessa direzione stava esaurendo la sua forza. Facevo fatica a completare i tuoi discorsi e a leggere nella tua mente, cosa che prima mi veniva naturale. Mi stavi chiudendo fuori con una crudeltà che non mi spiegavo, e alla quale rispondevo con la stessa durezza. Non sai cosa mi è successo, non sai cosa ha detto a me ieri. Ci lanciavamo questi ami e poi lasciavamo che si perdessero in un mare di niente, perché nessuna delle due voleva abboccare, ammettere che senza le parole dell’altra in bocca stavamo male. La mancanza non sapevamo dirla e io non ho mai imparato. Ti guardavo lavare le tazzine con cura, con gli stessi gesti di sempre, perché tua madre non scoprisse le merende clandestine, ma mi sembravi un’altra.

Nemmeno io credevo al tuo assassino. Pensavo invece che la psicologa di cui ridevi avesse ragione, che tu il trauma di un padre assente che ora se ne andava anche di casa non sapessi come esprimerlo. E allora, per attirare l’attenzione su una sofferenza che non volevi ammettere – tuo padre, dicevi spesso, lo odiavi – ti eri inventata quel fantasma, l’incubo dell’assassino che ti assale appena giri le spalle. Ti sentivi tradita da me, dalla compagna che alle tue bugie aveva creduto sempre senza esitazione. Ora, all’improvviso, quel patto lo rifiutavo. E tu non te lo spiegavi, te ne addoloravi. A volte pensavo che l’assassino ero io, io che stavo distruggendo la nostra amicizia. Diciamoci i segreti, sussurravamo appoggiate ai piedi del letto, nascoste dal mondo. Ma non era più bello come prima, era diventato una forzatura, tanto che i segreti che condividevo con te erano solo pettegolezzi stupidi che avrei rivelato a chiunque. Tu ti irrigidivi, mi mandavi via prima del solito con la scusa che dovevi fare i compiti, poi il giorno dopo li copiavi in classe da me. Io tornavo a casa con la voglia di piangere. Prima di salire, mi costringevo a esplorare le cantine per provarmi che ero meglio di te.

La mattina che finì tutto era una mattina come le altre. Dolce, di settembre, lo zaino dei primi giorni ancora leggero. Io attraversavo il cortile, tu comparivi qualche minuto dopo e insieme scendevamo verso il garage: tua madre ci accompagnava entrambe a scuola. Che cosa ci fosse lì per terra, quella volta, proprio di fronte al vostro garage, io non lo capii subito. Da lontano mi sembrava una massa scura indistinta, uno dei panni che spesso scivolavano giù dagli stendini dei balconi. Tu, invece, ti bloccasti subito. Non camminavi più. Stavi lì ferma e rigida come paralizzata da un terrore di cui non intuivo l’origine. Poi, dopo un attimo, ti lanciasti in avanti e quella massa scura la sollevasti per stringertela al petto come una madre straziata. Mi guardavi con lo sguardo fiammeggiante d’accusa mentre piangevi singhiozzando, mai così aderente alla bambina che in fondo eri, mostrandomi il corpicino del tuo gatto nero, che qualcuno aveva strangolato con un filo di ferro. L’assassino aveva colpito. Aveva scelto te, e aveva voluto che tu lo sapessi.

Non ci parlammo mai più.

Miranda Demichelis

Blam

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *