La zucca: un racconto di Lucia Visonà

 La zucca: un racconto di Lucia Visonà

Illustrazione di Francesca Vitolo

Ho i capelli ancora bagnati per la doccia. Sto sudando. La maglietta mi si è appiccicata alla schiena e una goccia si è infilata dentro i pantaloni. Per strada non c’è quasi nessuno. Normale, è quasi ora di pranzo, e non uno qualsiasi perché oggi è Natale. Quando sono in cima alla salita mi sbottono il cappotto, lasciando intravedere i vestiti quasi primaverili, troppo colorati per una giornata d’inverno.

La stazione è un edificio a due piani con la facciata gialla e le imposte tutte chiuse. L’orologio è sempre fermo sulle nove e dieci ma guardando il cellulare mi accorgo che è già mezzogiorno. Il treno arriva in orario.

Veronica è tra gli ultimi a scendere, trascina un’enorme valigia piena di regali per tutta la famiglia. Cammina con quell’aria un po’ imbarazzata di quando si rivede una persona dopo tanto tempo, le labbra che si piegano in un sorriso senza che ci possiamo fare niente. È un mese che non ci vediamo.

Quando arriva davanti a me l’abbraccio, forse la bacio anche sulle labbra, non mi ricordo. In ogni caso dura solo poco attimi in modo che nessuno ci veda. Avvicinandomi ho sentito il suo odore di vestiti puliti e balsamo per capelli. Pantene. La confezione bianca con il tappo d’oro che era sempre appoggiata sul bordo della vasca da bagno.

Scendiamo a piedi verso casa dei miei. Il rumore delle ruote della valigia fa da sottofondo alla nostra conversazione. Le parlo del mio articolo per gli atti del convegno di Nantes, lei mi racconta dei suoi colleghi al ristorante, di Roma, dei nuovi amici che si è fatta in così poco tempo.

Non ci siamo ancora dette tutto che siamo già arrivate. Mio padre insiste per portare la valigia su per le scale mentre mia madre ci aspetta sul pianerottolo.

Mi fa un po’ tristezza l’imbarazzo dei miei genitori. Da quando Veronica ha varcato la soglia, ogni loro movimento sembra studiato, privo di spontaneità. Si fermano indecisi in mezzo a una stanza come se si fossero scordati cosa dovevano fare, parlano a voce troppo alta, sorridono ogni volta che lei apre bocca.

La valigia occupa tutto il corridoio. Dentro c’è una scatola di cartone piena di prodotti del ristorante: pomodori secchi, mostarda, salsine…

«Queste le mettiamo subito in tavola» dice mia mamma con eccessivo entusiasmo. Poi il campanello suona, arrivano nonni, zii e cugini e ci sediamo tutti intorno alla tavola apparecchiata. Veronica è di fronte a me. All’inizio i parenti la sommergono di domande sul nuovo lavoro, sul trasloco, poi perdono interesse e si mettono a parlare di politica, come sempre. Lei a volte cerca di inserirsi nella conversazione, ma deve ripetere più volte ogni frase, a voce alta, per farsi ascoltare.

Cerco di incrociare il suo sguardo per sorriderle. E mi accorgo che non c’è niente di amorevole in quel gesto. Il mio è più che altro un sorriso di scusa.

 

A Pasqua sono tornata a casa dei miei. Veronica non viene: mi ha lasciata due settimane fa. Ero appena scesa dal pullman a Tiburtina, non mi ha neanche fatta arrivare alla metro.

Mi sembra di stare abbastanza bene. Ho ricominciato a mangiare, mi addormento senza troppi problemi, esco con gli amici, vado in biblioteca. Ho perfino finito di scrivere il primo capitolo della tesi. È la mia prima rottura e non so ancora che il peggio viene dopo.

«Vai giù a prendere i sottaceti» mi grida la mamma dalla cucina mentre guardo la tele sdraiata sul divano del salotto. Ha passato tutta la mattina ai fornelli ed erano ore che non sentivo la sua voce. Mi fa l’effetto di uno scossone.

Mi alzo e scendo in cantina sbuffando. La luce della lampadina proietta delle ombre tremolanti contro le pareti. Su uno scaffale, tra una cassa di birra e tre cartoni di latte, c’è la scatola di cartone con il logo di quel ristorante romano in cui non sono mai stata. Dentro rimane solo un vasetto di zucca sott’olio. Lo prendo, è pesantissimo. Risalgo le scale tenendolo tra le mani, la pelle a contatto con il vetro freddo mi fa quasi male. I gradini sembrano non finire mai, come se toccando quel barattolo mi avesse colpita una maledizione. Quando rientro in casa lo appoggio sulla credenza ed è solo un vasetto di verdure sott’olio in una sala da pranzo.

Ci sediamo a tavola all’una in punto. Gli antipasti coprono quasi ogni centimetro della tovaglia. Da sempre è questa la strategia di mia mamma: riempirci di torte salate e stuzzichini per poi passare a portate più modeste, o primo o secondo, quasi sempre tagliatelle al ragù e arrosto con le mele. Ha versato i pezzetti di zucca gialla in una ciotola dell’Ikea, dopo un giro del tavolo non ne rimane quasi più.

Alla mia destra la nonna ne prende un’altra forchettata:

«Che buona! Chi l’ha fatta?» chiede.

«L’ha portata Veronica, l’amica di Silvia.» Degli spilli invisibili mi trafiggono lo stomaco mentre faccio finta di non ascoltare.

«Che buona! Chissà come è fatta» continua prendendone un altro po’. «Senti, senti Roberto, ti piace?»

E ne mette un po’ nel piatto del marito seduto al suo fianco.

Il nonno abbassa lo sguardo sospettoso, assaggia e borbotta qualcosa.

«Hai capito cos’era?» insiste lei con il tono dolce e un po’ infantile che usa sempre quando gli parla.

«No, cos’è?»

«È zucca! Robi non me la mangia mai. Ma così ti piace, vero?»

Il nonno scrolla le spalle cercando di sottrarsi a quella conversazione che lo interessa ben poco.

La mamma va in cucina a prendere il primo. Sul tavolo rimangono solo due tartine, un paio di grissini e gli ultimi pezzi di zucca. Prendo la scodella e li divido tra la nonna e il mio piatto.

«Finiamola» dico. Non provo sollievo, se mai uno strano senso di rivalsa nel far sparire quegli ultimi cubetti gialli. Come se fosse l’ultimo legame tra me e Veronica, come se la stessi cancellando non solo dalla tavola ma anche dalla mia vita con uno sterminio alimentare che è anche un po’ una vendetta per essere stata lasciata.

 

È sera. In cucina le stoviglie si asciugano nello scolapiatti. Sul tavolo coperto di strofinacci sono accatastate pentole e pirofile. Della nostra storia resta solo un vasetto di vetro che sgocciola sul bordo del lavello. Ed è un pensiero talmente patetico che mi viene da ridere.

Lucia Visonà

Blam

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