Cosa succede quando sei malato ma nessuno ti crede? «La malattia» è il racconto di Sofia Rigoli
Era iniziato con un semplice raffreddore. Era primavera. Aveva chiesto a sua moglie dove stavano i fazzoletti.
«Li ho messi nel cassetto sotto il lavello, Arturo, dove stanno sempre» gli rispose lei dall’altra stanza. Arturo ne prese due pacchi e corse fuori perché doveva andare al lavoro ed era già in ritardo.
Aveva starnutito durante l’intero tragitto: per strada e alla stazione e in metro e fino al portone.
«Maledetti pollini» era la prima cosa che aveva detto entrando in ufficio, invece del solito «buongiorno». I due pacchi di fazzoletti li aveva finiti nel giro di poche ore. Così era stato costretto ad andare in bagno per prendere un rotolo di carta igienica. Di certo non faceva bella figura con i clienti, ma non aveva alternative. Ogni tanto, tra una pausa e un’altra, mentre gli acquirenti erano intenti a leggere qualche scheda informativa sulla casa che volevano comprare o erano concentrati a firmare il contratto, lui si scusava e si voltava dall’altro lato per soffiarsi il naso.
«Più tardi prendo un antistaminico, se continua così» dichiarò al suo collega durante la pausa caffè.
«Capita anche a me di starnutire ogni tanto. Io poi sono allergico ai cani…» gli aveva detto quello, prima di elencargli tutti gli effetti collaterali della cetirizina, consigliandogli di starne alla larga.
Nonostante si fosse lavato le mani e la faccia più volte, Arturo non aveva smesso di starnutire, anzi. Durante la giornata aveva cominciato a sentire un certo pizzicore alla gola, che poi si era trasformato in bruciore. Quando neanche l’antistaminico aveva funzionato, Arturo si era detto che quel malessere non poteva essere causato da un’allergia, doveva essere un’influenza. Allora si era convinto a prendere qualche pillola, dicendosi che un po’ di paracetamolo non aveva mai fatto male a nessuno. A pranzo non aveva mangiato, tanto era infastidito.
La mattina del giorno dopo Arturo, mentre si faceva la barba, aveva notato allo specchio che il suo naso era rosso e scorticato, mutilato da tutti gli starnuti a cui era stato sottoposto.
«Non posso prendermi una tachipirina?» chiese a sua moglie a colazione, davanti a una tazza di caffè freddo.
«Una tachipirina per cosa, Arturo? Guarda che si sviluppa una certa resistenza ai farmaci…»
«Ma come per cosa, Arianna? Per questo raffreddore che mi sta tormentando.»
«Io non ti ho sentito starnutire nemmeno una volta. Non è che starai facendo come al solito?»
«Come al solito?»
«Ma sì, che esageri per evitare di dover andare a lavorare.»
Arturo si era offeso. Come poteva pensare che stesse fingendo una sinusite così aggressiva? «In ogni caso, bisognerà comprare altri fazzoletti, sono quasi finiti» aveva affermato.
Arianna aveva alzato gli occhi al cielo. «Come no, Arturo. Tu non ti ammali mai, poi!»
«Mi sono ammalato ora.»
Arianna gli aveva messo una mano sulla fronte e l’aveva ritratta subito. «Ma per favore, non sei neanche caldo.»
Arturo uscì di casa ben stretto nel suo cappotto e armato dell’ultima scorta di fazzoletti. Quella giornata in ufficio fu ancora peggio della precedente: aveva cominciato a tossire. Inizialmente cercava solo di schiarirsi la gola, ma poi era stato preso da attacchi di tosse tanto violenti da farlo agitare. Aveva dovuto alzarsi e uscire dalla stanza, accompagnato dagli sguardi disorientati della coppia. «Il mio collega sarà con voi in un minuto» si giustificò Arturo tra un colpo di tosse e l’altro. Poco dopo era entrato il suo collaboratore, a cui aveva chiesto il favore di ultimare la vendita. «È che non sto benissimo, non me la sento di continuare. Forse andrò a casa.»
«Non ti facevo uno ipocondriaco, sai? Però fai come ti senti. Ci vediamo domani.»
Non era neanche arrivato alla stazione della metro che quella tosse prepotente aveva costretto Arturo a fermarsi sul marciapiede, con la gente che lo superava a passo svelto da destra e da sinistra. Nonostante le medicine, l’influenza sembrava insopprimibile. Aveva continuato a tossire in maniera sempre più insistente e frenetica al punto che si era dovuto piegare in due dal dolore, con il palmo della mano davanti alla bocca e l’altra mano sulla gamba per sorreggerlo. Quando si era raddrizzato e aveva guardato in basso era rimasto inorridito. A terra, e tutto sopra la sua camicia bianca, c’erano macchie di sangue denso e scuro. Dio mio, si era detto, cosa mi sta succedendo?
Era corso a casa, continuando a tossire sangue nell’incavo del braccio che usava per proteggersi. Appena arrivato aveva lanciato tutte le sue cose a terra ed era corso da sua moglie.
«Mi sa che non sto per niente bene. Come si smacchia questa camicia? Dobbiamo levare il sangue prima che si incrosti.»
Arianna si era voltata di scatto: «Arturo! Sono appena le dodici, non dovresti essere ancora a lavoro?».
«Te l’ho detto,» aveva ribadito lui, «sto male. Adesso smacchiamo questa camicia, dai, che mi devo mettere a letto.»
Arianna però lo aveva guardato spaesata. «Smacchiare da cosa?»
«Ma come da cosa, Arianna? Non lo vedi che è tutta sporca di sangue?»
Arturo allora si era tolto la camicia e gliel’aveva mostrata, tutta chiazzata di rosso.
«Arturo, io non so di che stai parlando. Però se vuoi che la metta a lavare dammela, basta che non fai storie» aveva risposto lei strappandogliela di mano.
Arturo, incredulo, rimase immobile per qualche minuto. Come poteva sua moglie non vedere che stava tossendo sangue proprio in quel momento, davanti a lei?
Quella sera con una scusa la convinse a farlo rimanere a letto. Non aveva nessuna voglia e nessuna forza di scendere le scale e andare a cena.
La settimana seguente si costrinse ad andare al lavoro, ma ogni giorno che passava diventava sempre più debole e malato. Aveva cominciato a fargli male tutto: aveva i muscoli rigidi come pietre e lo stomaco sempre sottosopra. A stento si trascinava verso la sedia, a volte la nausea era così forte che inciampava sui suoi passi; non aveva smesso di rigettare sangue. Anche se si macchiava i polsi o le maniche della camicia non se ne preoccupava più, perché non sembrava interessare a nessun altro. Ogni tanto gli capitava di guardarsi allo specchio e vedersi più gracile, le spalle ricurve e piegate su sé stesse e le occhiaie profonde. Gli sembrava anche di riuscire a intravedere qualche ruga in più, qualche piega di troppo sulla fronte o tra le sopracciglia. Aveva provato a chiedere a sua moglie se le sembrasse più pallido del solito, ma lei aveva risposto che era «fresco come un fiore». Allora si diceva che quella malattia doveva essere dentro la sua testa, forse si era impossessata della sua identità come un tumore che a volte è invisibile finché non ti ammazza.
Ora lo capiva, suo padre, quando poco prima di morire lo avevano messo in casa di riposo e lui era rimasto così offeso che per due mesi non aveva parlato a nessuno dei figli. Era per il suo bene, Arturo glielo aveva spiegato più di una volta, si era fatto troppo vecchio. Ma lui diceva che no, si sentiva abbandonato, si sentiva buttato via come i vecchi mobili nei garage, che non si sa mai se serviranno di nuovo e invece non servono mai e rimangono lì a marcire e anche se servissero poi finisci per buttarli comunque perché l’umidità li ha fatti imputridire e puzzano di vecchio. Diceva che lo stavano spedendo a morire da solo. Ma quale morire, diceva Arturo, che sei sano come un pesce? Ma quale da solo, diceva, che sarai circondato da infermiere a ogni ora del giorno e della notte?
Una volta, dopo che Arturo aveva chiamato al telefono l’ospizio e gli era stato detto che suo padre non voleva parlargli, aveva chiesto ad Arianna se avesse fatto male a mandarlo lì.
«Ma no, Arturo, non ti preoccupare» lo aveva rassicurato lei. «Hai fatto la cosa giusta. Poi le case dei vecchi mi mettono a disagio, c’è sempre odore di chiuso e continui a pensare che presto toccherà andare via a loro e prima o poi a te, è soffocante. Almeno così quando lo andrai a trovare sarà in un posto pulito e ordinato. Ed è meglio anche per lui, che non è circondato da quell’aria pesante e magari alla sua condizione ci pensa pure di meno.»
Poi suo padre era morto davvero pochi mesi dopo, di infarto. Una cosa improvvisa, nessuno se lo aspettava. Alla fine in casa di riposo non c’era stato neanche sei mesi pieni, e forse era meglio così, per quanto se ne era lamentato.
Adesso che non aveva altro da fare se non pensare alla sua malattia, Arturo ricordava il padre. Era lui a dirgli quando era bambino che se fosse rimasto arrabbiato per troppo tempo gli sarebbe venuto il mal di pancia. Arturo non gli aveva mai creduto, ma ora che nessuno sembrava voler ammettere che stesse male e il mal di pancia gli era venuto davvero, non poteva che chiedersi se fosse quello il motivo. Forse aveva mal di pancia perché era arrabbiato o era arrabbiato perché stava male, forse erano la stessa cosa.
Aveva letto da qualche parte che «un uomo sa quando sta diventando vecchio perché comincia ad assomigliare a suo padre». Era quello il motivo di tutte quelle rughe, di tutta quella debolezza, di tutta quella infermità? Arturo non era poi così vecchio, maledizione, aveva solo cinquantacinque anni, che motivo c’era di farlo morire adesso? Però era vero che più guardava il suo riflesso più non era lui che vedeva, e al suo posto c’era l’uomo che lo aveva cresciuto. Arturo ricordava che quando aveva raggiunto una certa età, aveva cominciato a stargli lontano per paura che la vecchiaia e la morte fossero contagiose. Adesso sua moglie lo stava lasciando solo, e se avesse potuto metterlo a vivere in un’altra casa e chiamarlo una volta a settimana per sapere se stava prendendo le sue medicine, era sicuro lo avrebbe fatto. Avrebbe forse dovuto andare in ospedale, ma ci aveva rinunciato per paura di essere mandato via. Non gli interessava più, tanto la morte era la malattia peggiore perché le comprendeva tutte, quindi una patologia valeva un’altra.
Gli si era raggrinzito il cuore tutto insieme, come quella vecchiaia piombata su di lui improvvisamente. Alla fine aveva deciso di smettere di andare al lavoro perché era troppo debole anche solo per prendere la metro. Il suo responsabile gli aveva mandato diverse mail in cui minacciava di licenziarlo a causa di quelle assenze a suo parere ingiustificate, ma Arturo non aveva voluto rispondergli. Arianna stava fuori casa sempre di più, fermandosi a volte a dormire da un’amica. Lui non aveva la forza di preparare da mangiare né la voglia, così rimaneva a letto e aspettava. Quella era un’attesa crudele e infinita, eppure necessaria, si continuava a ripetere. La noia e la solitudine erano forse la parte più pesante, i sintomi peggiori di tutti. Avrebbe voluto la moglie a stringergli la mano, avrebbe voluto la madre e il padre al suo capezzale. Intanto quella malattia si era attaccata a lui e lo aveva consumato. Lo aveva lasciato impaurito, trascurato e delirante, e non gli aveva nemmeno spiegato perché.
Sicuro che stesse per morire, Arturo si era chiuso a chiave nella sua stanza. Voleva morire da solo. Aveva sospettato che sua moglie non sarebbe venuta a bussare alla porta e ne era stato quasi sollevato. Arturo si ripeteva che era solo questione di tempo, che presto se ne sarebbe finalmente andato. Aveva atteso due giorni, poi tre, poi quattro, poi era passata una settimana e poi due e non era morto. Non era morto né di fame né di sete, né di noia né di solitudine. Era rimasto vivo a dispetto di tutti e a dispetto di sé stesso, ormai aveva accettato quello che sembrava essere il suo destino. E invece la fine non era mai arrivata, la tosse e tutti i suoi dolori se ne erano andati così come erano venuti e lui era stato costretto a uscire dalla sua tana. Avrebbe passato volentieri tutta la vita in camera da letto, ma Arianna, da bravo segugio, aveva fiutato e riconosciuto subito il momento in cui i sintomi si stavano affievolendo. Quando erano spariti del tutto, era tornata per pregarlo di venire fuori.
«Come ti senti?»
«Bene, sono guarito.»
«Te l’ho detto che saresti guarito da solo, senza nessuno di quei medicinali infernali che tanto ti piacciono.»
«Ah, adesso concordi con me: ero malato!»
Gli sembrava di averla colta sul fatto. Quella era la prova che la malattia era stata vera, che lui non era impazzito. Per qualche giorno si accontentò di tale consapevolezza. Quando tutto era tornato come prima – lui era tornato al lavoro e la moglie sotto lo stesso tetto –, decise che alla fine non avrebbe fatto molta differenza in ogni caso. Aveva avuto paura di morire e poi aveva avuto paura di aver perso la ragione. Entrambe erano cose che si infiltravano gradualmente nella vita delle persone, e quando ti raggiungevano stava a te scegliere se credergli oppure no.
Sofia Rigoli