La busta chiusa: un racconto di Michela Lazzaroni
L’attesa aveva modi diversi di sfiancarci. Mio padre abolì i silenzi, riempiva la cena di aneddoti che nascevano brillanti nella sua testa e nel passaggio fra laringe e bocca diventavano scialbi, a volte deprimenti; mia madre allenò le terminazioni nervose fino a renderle capaci di intuire un principio di capriccio dalla sola pressione barometrica dell’aria, dote che la portava a lanciare urla rapaci delle quali si pentiva subito. Entrambi controllavano la posta ogni mattina, con calma, e fingevano di non aspettarsi niente di brutto, che poi è il mestiere dei genitori.
All’inizio io e mia sorella fummo esentate da ogni preoccupazione, il nostro presente aveva i contorni sfumati dell’inconsapevolezza infantile e continuammo a vivere come al solito. Inseguivamo i gatti del quartiere, imbrattavamo il marciapiede coi gessetti, litigavamo tirandoci i sassi, poi tornavamo la sera e tutto ci pareva perfetto e immutabile. In casa percepivamo una lieve distorsione del quotidiano, come certe occhiate appena più lunghe del necessario, ma non avevamo gli strumenti per collocarla nello spettro della paura, almeno fino alla domenica in cui vennero i parenti in visita. Non bisognerebbe mai lasciare i bambini da soli, con poche frasi sgrammaticate edificano interi castelli pieni di mostri. Mentre genitori e zii complottavano sottovoce in cucina, nostro cugino Egidio, esperto di ospedali perché suo nonno aveva la gotta, aveva spiegato a me e a Carola che tutto dipende dalla busta. Se è aperta gli esami vanno bene, non c’è nulla di cui preoccuparsi, puoi persino sbirciarci dentro. Ma se la busta è chiusa bisogna portarla subito dal medico, intonsa, e sarà suo compito solenne spiegarti di che morte dovrai morire. Il senso di vertigine del quale ci eravamo a stento accorte si tramutò d’un tratto in un presagio di prossima catastrofe. Anche per noi, seppure in ritardo, cominciò l’attesa.
In quanto sorella maggiore, la salute della famiglia dipendeva da me. La mia buona o cattiva condotta determinava la durata della febbre e il numero delle carie, le aritmie di papà e i mal di testa della mamma. Se prima svolgevo i compiti delle vacanze con diligenza, dopo quel pomeriggio iniziai a farlo a colazione, senza concedermi i cartoni animati. Se prima contribuivo alle faccende domestiche, dopo cominciai a offrirmi anche per quelle che non mi venivano imposte. Ero determinata a tenerci in vita.
Mia sorella invece ostentava indifferenza, a volte talmente bene che me la prendevo con lei. Non sopportavo la sua cieca fiducia nel futuro, perché a lei il futuro non aveva mai fatto scherzi. Vinceva sempre: sia a scuola sia nei giochi con gli amici esibiva una fortuna offensiva, pescava sempre il bigliettino con la domanda più facile o la carta giusta per rubarti il mazzetto. Che il successo le capitasse così, senza sacrificio, mi sembrava un’ingiustizia. La perdonai soltanto perché dopo il vaticinio di Egidio si prese l’incarico di ritirare la posta ogni mattina, una premura che non era da lei e scambiai per legittima preoccupazione.
Così aspettammo. Ogni giorno Carola percorreva il pianerottolo nelle sue ciabattine coi fiori di plastica e apriva la cassetta delle lettere grigia, la quinta da sinistra, prendeva tutto quello che il postino aveva lasciato, lo portava in casa e lo posava sul tavolo verde della cucina in una pila ordinata. Io scrutavo dalla soglia, cercando con sguardo apprensivo la busta aperta e strizzando gli occhi per evitare di vedere la busta chiusa. Non c’erano mai, né l’una né l’altra. In compenso, come per risarcimento, iniziammo a ricevere molta più posta. Dapprima furono scartoffie: la convocazione all’assemblea condominiale, la tassa sui rifiuti, i nuovi orari della biblioteca. Poi arrivarono i volantini: la sagra dei salumi trentini, la serata danzante, gli artisti di strada con i cani ammaestrati. Le pubblicità non le contavamo più, pareva aprisse un negozio di scarpe ogni settimana, il salumiere offriva sconti ridicoli, la parrucchiera presentò la moda americana dei colpi di sole. Gli abbonamenti erano un mistero, senza alcuna sottoscrizione ricevevamo riviste di cucina, cartamodelli da sarta, fumetti di fantascienza vagamente erotici, mensili di ciclismo, cataloghi di attrezzi da giardino, noi che nemmeno ce l’avevamo. A settembre arrivarono i primi auguri di Natale e nessuno si insospettì, tranne me.
Ignoro cosa mi aspettassi, forse la disonestà del postino, che aveva i baffi e un’aria furtiva, comunque sia una mattina mi appostai sul pianerottolo, dietro l’angolo oltre il quale le scale scendevano ripide verso la cantina, e attesi. Il postino non tardò, apparve circospetto e puntuale con la borsa di cuoio e i bottoni dorati sulla giacca blu. Infilò tre lettere nella prima cassetta e nella seconda un pacchetto che poteva essere un libro o una scatola di sigari; nella terza e nella quarta non mise nulla e pensai avesse esaurito le consegne, finché nella quinta infilò un’unica busta. Non so come sapessi che era proprio lei, in mezzo a tante senza importanza che avevamo ricevuto e avremmo ancora potuto ricevere, eppure ne ebbi la certezza non appena la vidi scivolare fuori dalla borsa e sparire dentro la feritoia di metallo: era la busta che aspettavamo, ed era chiusa.
Dimenticai il postino, la cassetta grigia, il pavimento appiccicoso, mi acquattai sulle scale e ripercorsi con la memoria i miei peccati. Avevo mantenuto una condotta irreprensibile, ancora più del solito, eppure doveva essermi sfuggita una leggerezza, o una mancanza involontaria, responsabile della tragedia che stava per abbattersi sulla mia famiglia, e più ci pensavo meno mi sembrava giusto capitasse a me. Ricordo con esattezza il momento in cui capii che era colpa di mia sorella, delle sue vittorie svogliate, della sua costante mancanza di impegno che finiva per invalidare il mio, perché era il preciso momento in cui sporsi la testa oltre l’angolo e la vidi girare la chiave nella cassetta.
Mi alzai e avanzai silenziosamente, come il postino, o come se volessi prenderla di sorpresa, o come se facendole accadere qualcosa di brutto potessi salvare il resto di noi. Mi avvicinai mentre infilava la manina nello sportello, prendeva la busta, tastava il fondo della cassetta per assicurarsi che non ce ne fossero altre, chiudeva lo sportello. Quando si voltò ero di fronte a lei, sopra di lei, e pronta ad arrecarle una ferita fisica o spirituale che potesse punirla e allo stesso tempo essere offerta in cambio della nostra salvezza. Lei mi guardò senza capire, con aria interrogativa, e io guardai lei, e poi le sue mani, e poi la busta chiusa. Solo che non era una busta chiusa, e nemmeno aperta, non era affatto una busta ma una brochure colorata piegata in tre, un tendone a righe bianche e rosse con una scritta gialla che annunciava il teatrino dei burattini, divertimento per grandi e piccini, in città solo domenica sera, affrettatevi. Carola restò immobile nelle ciabatte con i fiori, pareva persino più piccola, e i suoi occhi non dimostravano imbarazzo né complicità, nemmeno un briciolo di preoccupazione. Mi spostai di lato, confusa, e la lasciai passare mentre tornava in casa per assolvere il suo compito.
Non ne parlammo mai, perché ero sicura che se lo avessi detto ad alta voce non avrebbe più funzionato. Continuai a comportarmi da brava bambina, per non destare sospetti e non sbilanciare gli equilibri di quel presente incerto, anche se sapevo che il merito non era più solo mio. Stranamente ne fui sollevata. Continuammo a essere molto diverse, l’una l’opposto dell’altra, tuttavia da quel momento condividemmo qualcosa, non so bene se l’attesa, o la speranza, o la magia, ma qualcosa di nuovo che, per noi, rappresentò l’essenza dell’essere sorelle. Eravamo una squadra, io e lei, e avremmo vinto o perso insieme.
Michela Lazzaroni