La blatta: un racconto di Giorgio Pozzessere
Appoggiato al muro ingiallito della sua camera, di fronte al letto sgualcito da un disturbato sonno di due ore, Ivo pensò che non avrebbe avuto più senso continuare a vivere. Il tempo prometteva tempesta, o quantomeno una leggera pioggerellina, di là dalla finestra che lui non riusciva a fissare, di là verso Barbaricina. La testa non gli permetteva di staccare lo sguardo dalla blatta che, inetta, si agitava nel quadrato di travertino cercando di non morire, spinta da un impulso destinato a perdersi, a sprofondare nel nulla perché non capito. Il pavimento sapeva di piscio e sapeva di marcio; quella mattonella sapeva di una vita sedimentata dal tempo e impolverata dalla negligenza; mentre Ivo sembrava lontano. La blatta, intanto, agitava le zampette.
Non ricordava perché si era ritrovato lì, ma pensava che era proprio lì che doveva stare. Tempo prima avrebbe frignato per un po’, avrebbe versato lacrime su qualche pagina di un machismo esasperato da fatti di vita non vissuta, dal comportamento collettivo degli uccelli alti nel cielo, così lontano dalla sua comprensione, o dal flusso interminabile del fiume – un eterno divenire, pensò –; avrebbe magari scritto qualche verso nudo e isterico, o versato qualche accordo su frasi sbavate prima di riprendersi e, con un sorriso che sapeva di fiele, uscire con piglio vitale dalla palazzina che lo imbrigliava ormai da tre o quattro anni. Vetri frantumati a terra avevano reso questa gabbia sopportabile, corpi disegnati per caso avevano macchiato ogni sua parete, ombre di pensieri sperduti avevano addobbato le sue finestre; feste disperate di sogni pensati nudi primitivi avevano colorato il suo salone. Assenzio in bicchierini ammuffiti, bordi di libri bruciati, dischi segnati dalla cenere e ora dalla polvere, da vini sacrificati alla causa, mutande lanciate nel vuoto di aspettative disilluse, cenere lasciata cadere dall’alto con salti nel vuoto, fumi ad anello, studiati sentimenti solitari, cappelli lisi da piogge vuote d’anima, capelli perduti a rincorrere parole affogate in boccali sognati.
Ma ormai quel tempo era passato senza lasciare traccia. La palazzina era sempre la stessa, il piglio altalenante pure; tuttavia della disperazione non era rimasto nulla, solo la sua mancanza; e la mancanza, per alcuni, fa affogare. Cominciò allora a sentire l’angoscia nelle scarpe sudice, forate quando tutto sembrava avere più senso; cominciò allora a sentire il tormento nel calzino bucato, un dolore diverso e spaiato dal tonfo della porta da poco sbattuta, dall’assenza che si ritrovava tutta in una goccia di sudore, di freddo e di quotidianità perduta. Un urlo nelle scale, lontane nello spazio e dunque nel tempo, un pianto soffocato e poi solo la sua eco. E allora solo quel petto in fuori e quella schiena verso uomini con vite disegnate, quelle labbra consegnate a un’esistenza compita, costruita sul ricordo di persone, colorato dall’aspettativa di una pensione, inebriato da una forma di liquidazione dalla vita.
Ivo sospirò, lo scarafaggio agitava ancora le zampette, il tempo annunciava tempesta, ma solo di là, oltre la finestra.
Decise, allora, che non avrebbe mosso un muscolo, che sarebbe rimasto lì, seduto sul pavimento, a guardare la lotta, a fissarla nell’esatto istante del suo compimento. Decise che non avrebbe interferito, che la sua apocalisse avrebbe fatto capolino prima o poi e che l’eco di un tempo ormai cancellato gli avrebbe fatto oblio. Un corpo abbandonato e poco sondato, un petto una schiena un sedere che sapevano di bignè lasciato sul piatto, gettato a persone con i baffi tagliuzzati, con cravatte schizzate dal tempo perduto, con ricci di permanente, con zaini puliti e giacche ordinate. Un corpo, un corpo non più leggibile, un corpo come una corda scordata non più accordabile, una schiena da non accarezzare, delle natiche da non suonare. E i nei assenti. No, non voleva muoversi, non voleva interferire a favore di nessuno. E allora, con la schiena appoggiata alla parete, con la schiena piegata e ferita da quel rumore lontano ormai dimenticato, lui decise che avrebbe assistito senza mangiare, che avrebbe assistito, senza respirare, alla sua fine. Da lontano, ma sempre presente.
Sarebbe stato grandioso.
Ivo pensò che solo così avrebbe potuto trovare qualche senso, qualcosa che non puzzasse di marcio e di inadeguatezza. Lontano un portone sbatté. La rabbia infuriava nel mondo, si ergeva sui letti immaginati, su vie abbandonate, su tetti non più solcati, su vicoli mai saltati, mai desiderati, infuriava la rabbia tra negozi sventrati e osterie panciute, infuriava la rabbia nelle menti di una generazione impallidita dal nulla, impotente, sconfitta. Urlava la sua rabbia silenziosa su quella parete ingiallita della sua camera.
Poi, in città non si sentì più nessun rumore.
Ivo si girò allora un istante, verso la finestra non fissata, e vide uno stormo d’uccelli neri occupare la porzione di cielo di là dalla finestra, verso il sole odiato, di là dai monti verso il cielo tinteggiato; vide uno stormo di uccelli neri volare magicamente disegnando croci tra le nuvole, oltre i quartieri morti e morenti, inebriati da balli e da alcol, volava lo stormo oltre le feste ormai stanche, oltre fiumi di quotidiano e di mestieri, oltre versi utili per sputare su una terra che non poteva esistere per nessuno, che non esisteva più per lui, né per questa generazione votata al nulla. Una lacrima cercò di cadere, ma Ivo resistette e spostò lo sguardo: ritornò a fissare il quadrato di travertino per qualche misero istante.
E infine Ivo sospirò e, con la schiena intorpidita dal freddo della parete, si alzò.
Ormai la blatta non si agitava più.
Giorgio Pozzessere