La bestia: un racconto di Francesca Palano

 La bestia: un racconto di Francesca Palano

Illustrazione di Valentina Cascio

Sotto il mio nome, la targhetta affissa sulla porta dello studio recita «psicologo». È quello che sono, non quello che faccio. Non esattamente.

Anita ha sedici anni, labbra serrate e occhi spaventati. Sta sulla punta della sedia, i piedi rivolti verso la porta e le braccia conserte.

Sa che le serve aiuto, ma è certa che non sarò in grado di dargliene. In tutta franchezza, nemmeno io ne sono certo. Ho la sua cartella clinica posata sulla scrivania, assieme alla relazione dell’assistente sociale. Non ho bisogno di sfogliarla per sapere che è una depressa da manuale. Dorme poco e mangia appena, ha visto un esercito di strizzacervelli, ingurgitato gocce e pastiglie in quantità. La bestia la sta divorando.

Un mattino, mentre andava a scuola è scesa dall’autobus numero 280, ha attraversato la strada e oltrepassato la pensilina dove tutte le mattine prende il 35. Poi è entrata in stazione, ha preso le scale mobili e si è buttata sotto il treno delle 7,23. Non sarebbe sopravvissuta se non l’avessero afferrata al volo. Quello che io non sono riuscito a fare con Giacomo. Ma non è il momento di pensarci.

«Non ti libererai mai della bestia, ma io ti insegnerò a dominarla» esordisco.

Lei si irrigidisce, nessuno è mai stato così franco con lei. «La bestia…» ripete. La parola le scivola sulle labbra screpolate.

«Com’è cominciata?»

Anita cerca la risposta tra l’arredamento dello studio. Fissa lo sguardo sulle macchie di Rorschach. Lo fanno tutti. Chissà se ci vedono tutti gli stessi mostri.

«Non lo so. A un certo punto è cominciata. Così…»

Chissà quante volte ha ripetuto la stessa storia: la stanchezza, l’ansia, la vita senza sapore, le crisi di pianto appese alla gola.

La fermo. «No, io voglio sapere com’è cominciata veramente.»

«Non lo so» ripete, ancora più spaventata, convinta che, se mi dicesse la verità, la manderei dritta in un ospedale psichiatrico.

«Era sotto il letto o nell’armadio?»

Ora ha gli occhi così spalancati che i bulbi potrebbero rotolarle fuori dalle orbite.

«Non sei pazza» le dico. «La vedo.»

«Cosa…cosa vede?»

Sto emettendo una condanna peggiore della pazzia, nessuno vuole essere sano di mente a queste condizioni. Inspiro e cerco di dominare la mia ansia. Il mostro appollaiato sullo schienale di Anita sarà alto un metro e mezzo. Si gonfia ancora, alimentato dalla sua paura.

«Era sotto il letto. Dicevano che era solo polvere. Hanno pulito, ma io la vedevo ancora. Cresceva. Un giorno è uscita dal letto e non mi ha più lasciata.»

È un brutto caso di familiarità e predisposizione.

«Le bestie come le tue sono geni familiari deteriorati. Possono rimanere quiescenti per generazioni, finché non trovano un soggetto adatto al loro scopo.»

Anita ha i muscoli tesi per lo sforzo di tenersi seduta sull’orlo della sedia, se si alzasse, se si muovesse un soffio di più, la bestia le andrebbe dietro. Lancia un’occhiata al tagliacarte sulla scrivania. Lo afferro al volo e lo sottraggo alla sua vista.

«Calmati.» Deve calmarsi. Il mio cuore accelera i battiti. Mi ricordo che anche io devo stare calmo, ma sono furioso con me stesso per aver fatto un errore così grossolano. Il tagliacarte non avrebbe dovuto nemmeno essere nello studio. Non è un buon segno, devo stare più concentrato.

«Non dargliela vinta. Sono parassiti, si nutrono di noi, e poi, quando sono diventati abbastanza forti, si prendono anche la tua vita. L’ultima scossa di energia, quella che li rende completi.»

Anita trema e piange. «Non voglio morire. Mi sono resa conto di quello che stavo facendo nel momento in cui mi hanno tirata indietro.» La bestia cresce e io rivedo quella di Giacomo saltare fuori dai binari, libera.

«Ti insegnerò a controllarla, a tenerla d’occhio.» Dietro Anita la bestia si innervosisce, diminuisce appena di volume.

«Riuscirò a ignorarla? A dimenticarla per più di qualche attimo?»

Scuoto la testa. «Non dovrai dimenticartene. Mai.» Ora la sua bestia è furiosa con me perché sto svelando i suoi trucchi.

Distrattamente, saggio la lama del tagliacarte sui polpastrelli. È affilatissima.

«È quando ti distrai che prende il sopravvento. La tua vita è tanto più in pericolo quanto più ti dimentichi di lei. Non ti saresti mai buttata se non avessi perso il controllo. È importante che tu capisca. Può essere questione di un attimo. Se assorbe la giusta dose di energia, la bestia può crescere in una manciata di secondi.»

Anita si asciuga le lacrime al polsino della felpa. «Come mai lei la vede?»

«È un’attitudine rara. E anche chi ce l’ha, fatica a svilupparla. Alcuni vivono tutta una vita senza sapere di esserne capaci. Io ho imparato a distinguerle solo dopo averne vista una liberarsi.»

«Com’è possibile che non l’abbia vista prima?»

Già, com’è possibile? Giacomo e io eravamo amici per la pelle, eppure non ho mai sospettato di niente. Io più di tutti avrei dovuto capire, anche se non fossi stato capace di vedere le bestie. Stringo il tagliacarte così forte che sul palmo della mano mi rimangono i segni dei decori.

Ma non siamo qui per parlare di me. Passo il resto della seduta a spiegarle i primi semplici accorgimenti. Il primo, capire quando la situazione sta sfuggendo di mano. Le prometto che, se mi ascolterà, con il tempo, riuscirà a farla tornare delle dimensioni di un batuffolo di polvere. Ma le ripeto che non sarà mai al sicuro.

Anita va via rincuorata, io invece sono esausto. Mi ripeto che ce la possiamo fare, ma oggi proprio non riesco a crederci. Sgranchisco le gambe facendo un giro dell’ufficio fino alla finestra. Sto per chiuderla: il mio riflesso, e poi.

E poi

dietro di me, lei, la mia bestia, cresciuta a dismisura. Ghigna.

In mano ho ancora il tagliacarte.

 

Francesca Palano

Blam

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