Sessantasei: un racconto di Elisabetta Giromini

 Sessantasei: un racconto di Elisabetta Giromini

Illustrazione di Elsa Capalbo

Lo so che verrà pure questa notte e io sto qui che l’aspetto, che in fondo spartiamo lo stesso destino, io e lui. E l’aspetto tranquilla, estraggo i numeri nell’attesa. Due: ’a Piccerella. Me la mettono in braccio, la Tammurriata del ’76 è il mio primo giorno felice. Le triccheballacche, le fisarmoniche, la paranza dei suonatori per il rione che è una festa che non ti dico, e i balli, i balli! La mamma giovane colle sopracciglia grosse che mi porta la neonata e mi dice: «Dalle un bacio!». Mi chiamo Lucia. «Dalle la benedizione, Lucia!» È il primo giorno che m’hanno chiamato così, come m’ero sempre sentita.

Quarantasette, ’o Muorto. Non m’è uscita nemmeno una lacrima. Sai quante volte m’aveva spinta sulla spiaggia, a calci mi faceva avanzare: la devi finire con queste schifezze! Chille non teneva rispetto per le creature sacre come a noi. Mi tirava per i capelli con quelle mani brutte e lerce, m’arrivava l’acqua ai ginocchi, mi spingeva la testa sotto. E quando mi pareva che m’ero inghiottita tutto il mare di Napoli, mi tirava su: Mo ti faccio sposare Concetta e me la devi subito mettere incinta! M’aveva vista coi vestiti di mamma e un cuscino sotto, mi guardavo allo specchio e accarezzavo la pancia. Se l’è portato via un botto di quelli di Capodanno. Tutto tronfio a giocare a chi lo spara più grosso e il botto gli si è conficcato nell’occhio. Manco l’ambulanza abbiamo chiamato, s’è freddato subito e mia madre s’è fatta il segno della croce, m’ha dato un bacio in fronte e da quel giorno s’è vestita di rosso. Il ventre sempre vuoto, e il desiderio fuori posto.

Ci abbiamo abitato vent’anni, io e te, in questa casa nel rione; è una casa piccola e umida, l’unica portafinestra sempre aperta sulla strada tanto la gente entra lo stesso anche se non la vogliamo, mica esiste l’intimità da queste parti, troppe persone e troppo da fare. Le mensoline piene di riviste, ci piaceva guardare i look delle star, in mezzo agli scialli, i santini, le boccette di profumo. Fortuna sappiamo contare fino a novanta, che per campare ci tocca far divertire le signore. È quello che si aspettano da noi: tirare i numeri della tombola, tessere storie col sorriso per Natale, venticinque. Settantatré, ’o Spitale. Ci credevo che potesse durare sempre così, che alla fine era una vita dignitosa, meglio della vita di prima, sotto al lampione. Chillo è nu buono guaglione. Fino a quel controllo, i valori del sangue sballati. M’hai detto che non mi dovevo preoccupare, che dovevi prendere le medicine, e tutto sarebbe tornato normale. Se ne sono andati i capelli, i denti quelli già se n’erano andati, quattro o cinque. Però avevi ancora il sorriso di sempre, hai biascicato l’allegria fino agli ultimi giorni. Ti avevo agghindato la testa con un bel turbante, come Moira Orfei. Quando sei morta è entrata una folata di vento dal vicolo fino a dentro alla casa che sono sbattute le ante della portafinestra. L’ho capito che me lo volevi dire che te n’eri andata, che adesso mi toccava arrangiarmi da sola. ’E ddoie zitelle. Ci facevamo due risate quando usciva il sessantasei. ’E ddoie zitelle che si amano, che pure noi abbiamo il diritto all’amore, me lo insegnasti tu quando m’offristi la sigaretta, sotto al lampione che piovigginava. Era l’amore vero quello fra me e te, maledetta che sei morta prima. Che m’hai lasciata dopo una vita. La mia femmenèlla, il passaggio tra la notte e il giorno, il maschio e la femmina. La dea mia coi tacchi a spillo, le zizze rifatte e il rossetto rosa talco, gli occhi di zucchero.

Da quando sei morta mi stendo la sera in quello che era il nostro lettuccio, bacio la tua fotografia, la stringo sul petto e guardo il soffitto. Non ci riesco a spegnere la luce, mi fa paura stare al buio da sola, e aspetto con gli occhi spalancati. Me lo vedo l’occhio cavo di mio padre colle croste di sangue, l’occhio buono mi fissa, mi va la testa sott’acqua e mi manca il respiro. Nelle narici c’è l’acqua, nel cervello c’è l’acqua, lo stomaco si riempie e i polmoni pure. Le mani lerce mi tirano i capelli, mi spingono la stessa sotto che devo ingoiare tutto il mare di Napoli. La gola brucia, brucia il naso. Tutto si fa nero e scuro, anche l’altro occhio adesso è cavo. Tiro fuori la testa dall’acqua, so che non è lui che m’ammazzerà. Chillo era a ’e tiempe ’e Pappagone, non ha importanza più. Vorrei solo sbattere gli occhi, vedere di nuovo il viso di mamma mentre mi rimbocca le coperte e dice È nu buono guaglione. Lo dice a lui, lo dice a me. È nu femminiello. E non ci sta niente di male, pure un femminiello si merita l’amore. E fortuna t’ho trovata, compagna di una vita, e con te la mia casa, una casa piccola e umida, che la gente ci cade dentro, che è un tutt’uno con la strada. Una stanza sola però c’è tutto, i tuoi vestiti, i tuoi profumi, le scarpe col tacco, la bigiotteria. Ritorno a guardare la tua foto e ti do un bacio, di quelli lunghi di gioventù. Ho chiuso per bene la portafinestra e ho lasciato acceso il gas. Già si chiudono gli occhi. Sono presto da te.

 

Elisabetta Giromini

Blam

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *