Un incidente, una solitudine, un dolore che non è solo fisico: «Intermezzo» è il racconto di Maria Sole Cusumano

 Un incidente, una solitudine, un dolore che non è solo fisico: «Intermezzo» è il racconto di Maria Sole Cusumano

Illustrazione VecchiaJane

Il dolore è un punto esatto della schiena, sopra il coccige e due palmi sotto le scapole, potrebbe essere la botta ma brucia come l’inferno. Sanguino, e il sangue si starà mescolando all’urina di gatto e fanghiglia su questi sanpietrini. Ho ancora le gambe sollevate, la posizione di una che s’è stesa per guardare il cielo mica per patire, e le caviglie incagliate nelle mutande. Non sono neanche delle belle mutande, non hanno il pizzo o altre stronzate, sono normali, blu, di cotone. Me le ha comprate mia madre, dodici paia tutte uguali. Queste, aveva detto, ti durano finché non ti sposi.

Mi sollevo un poco sui gomiti e il punto della schiena grida, preso a morsi da demoni cornuti. Con il piede nudo guido le mutande attraverso le borchie dello stivaletto, poi mi alzo per cercare l’altro. Non ricordo quando l’ho perso, né se qualcuno me l’abbia tolto, se stringo forte gli occhi e ci rifletto non vado più indietro di qualche minuto.

Io adesso: in piedi, con uno stivaletto sì e uno no, un punto di dolore nella schiena.

Io prima: a terra, con uno stivaletto sì e uno no, un punto di dolore nella schiena.

La tetta sinistra è più bianca sotto la luce della luna. Così esposta mi fa senso, sembra voglia attirare l’attenzione, perciò tiro giù la maglietta e aggiusto la gonna.

Conosco la strada anche se non la ricordo. Incespico perché lo stivaletto ha la zeppa e la zeppa mi dà un due, tre centimetri in più. La città si rivela poco alla volta, nella mia testa s’illuminano zone che credevo buie. Tornare a casa è l’unica cosa che so fare. Scopro al polso il quadrante scheggiato di un orologio e il segno rosso lasciato dalla cinghia in acciaio. Lo avvicino all’orecchio per sentire se va e in effetti va, solo che la lancetta dei secondi non riesce a oltrepassare l’una meno due.

Mi battono i denti e mi domando perché abbia pensato che fosse una buona idea indossare un top, la gonna e i collant otto denari – che si sono pure stracciati intorno all’inguine. Può darsi che avessi un giubbotto, una pelliccia di quelle che da bambina consideravo da vecchia zitellona piena di soldi; oppure una giacca di pelle, che avrebbe avuto più senso con gli stivali borchiati. Ma la mia memoria fa lo stesso movimento della lancetta dei secondi.

Io adesso: in piedi, con uno stivaletto sì e uno no, un punto di dolore nella schiena e un orologio in acciaio col quadrante spaccato.

Io prima: a terra, con uno stivaletto sì e uno no, un punto di dolore nella schiena, un orologio in acciaio col quadrante spaccato e la tetta indurita dal freddo.

Non ho una borsetta né uno zaino – mi sento più una tipa da zaino – e quindi faccio mente locale di tutto ciò che potrei averci messo e, di conseguenza, perso: le chiavi di casa, mi do sempre una scotolata prima di uscire per sentirle tintinnare da qualche parte; il cellulare, cancro invisibile che sta attaccato alla mia chiappa sinistra; il rossetto, sento un residuo burroso agli angoli della bocca; il portadocumenti, sono anni che non esco con il portafoglio.

Ci sono ancora locali aperti, la musica arriva distorta, o forse sono io che mi sono perforata un timpano. Non si distinguono le parole, e la melodia si stende, liquida, fra le stanze incatramate della mia testa. Attraverso una piazza piena di gente e gli sguardi mi rotolano appresso, svogliati, me li lascio alle spalle.

Il mio portone è uno del tipo da prendere a spallate, infilare la chiave, girare e spingere finché non si sente lo scatto. So che nel sottovaso della stella di Natale rinsecchita, con ancora il nastro rosso e l’adesivo dell’Airc, c’è il mazzo di chiavi di riserva per le emergenze. Mi piego e i demonietti intorno a quel punto della schiena ballano. Non vedo l’ora di farli tacere con l’acqua ossigenata e un cerotto.

All’ingresso c’è odore di pulito, deve essere mercoledì, quando viene la ditta a buttare secchi d’acqua per le scale e grida agli inquilini di non passare dov’è insaponato. Prendo l’ascensore e guardo la ragazza nello specchio che dovrei essere io ma dopo una passata in asciugatrice. Le porte si aprono e sul corridoio si accende una luce, lampeggia sul filo di un ronzio inquietante e poi si spegne. Mazzo di chiavi in mano, seguo con le dita la seghettatura e infilo la seconda. La serratura è nuova, il proprietario l’ha cambiata da qualche mese. Gira, scatta, entro.

Il rubinetto perde, il frigorifero fa sempre quel rumore, come un motorino. Nella luce arancione la stanza sembra malata. Sul tavolo c’è un cartone di pizza e il solo odore di peperoni, salsiccia e cipolla mi fa parlare lo stomaco; ne prendo uno spicchio e lo mando giù senza quasi masticarlo, in equilibrio sullo stivaletto con la zeppa. Il tempo di inghiottire un rutto e cercare un bicchiere, nel lavandino vomito i pezzetti di salsiccia e i filamenti della cipolla; il tutto annacquato nell’alcol, forse una o più birre, si spiegherebbe il colore. Mi resta in gola e nel naso un fondo acido e l’acqua non basta a mandarlo via. Con un tovagliolo premuto sulla bocca vado in bagno. Acqua ossigenata e cotone, nello specchio cerco quel punto della schiena dove ballano i demoni: è lustrato di fango, c’è un po’ di pus lungo i bordi e la pelle intorno è arrossata. Quando provo a far tacere i diavoli, quelli urlano, e urlerei anch’io, ma non voglio dar loro questa soddisfazione.

Sul gabinetto continuo a tamponare quel punto lì con movimenti circolari via via più lenti, il sonno mi preme sulle palpebre come due pugni. Il getto di pipì è caldo e mi schizza sulle cosce, ho l’impressione che qualcosa pizzichi in mezzo alle gambe e asciugandomi trovo una macchiolina di sangue. Il dolore in quel punto della schiena si calma, ora l’inferno tace.

Guardo l’orologio. Segna ancora l’una meno due.

 

Maria Sole Cusumano

Blam

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