Un luogo magico e un amico tanto folle da volerlo raggiungere: «Il Regno delle Carpe giganti» è il racconto di Alice Cervia

 Un luogo magico e un amico tanto folle da volerlo raggiungere: «Il Regno delle Carpe giganti» è il racconto di Alice Cervia

Illustrazione di Francesca Vitolo

La sedia di plastica era dura e fredda. Il poliziotto che gli faceva le domande gentile. Pietro non sapeva cosa dire, e di sicuro non poteva dire la verità.

«E quindi,» riprese il poliziotto, «Sebastiano, quindici anni compiuti al momento della scomparsa, si era appena spogliato per fare un bagno nel fiume.»

«Sì.»

«A gennaio.»

«Esatto.»

«E non gli hai detto niente, non hai provato a fermarlo?»

«Nessuno ferma Sebastiano.» Questa parte era vera. Era così fin da bambini. Sebastiano decideva qualcosa e Pietro lo seguiva. Per esempio, decideva di scoprire cosa succede a fissare il sole a occhi aperti e Pietro faceva lo stesso. Sebastiano voleva saltare da un albero all’altro con una liana fatta di spago? Pietro c’era. Crescendo le sfide si erano fatte più complicate, raffinate. Le cose potevano andare male, e invece erano sempre andate bene. Fino a oggi, almeno.

«E poi l’hai visto andare sotto?»

«Sì.»

«E non hai chiesto aiuto. Per due ore. Perché?»

Perché? Ripensava al viaggio in motorino con Sebastiano che guidava accelerando in discesa e gli urlava le istruzioni: «Non mi vedrai risalire subito, perché ci vuole un po’ a raggiungerlo. Ma non fare come l’ultima volta, che ti caghi addosso e chiami tua mamma. Aspetta almeno due ore. Se non mi vedi tornare chiama qualcuno. I vigili del fuoco, la polizia, tua mamma, vedi un po’ te. Ma tanto torno su prima.»

Come faceva a spiegare al poliziotto, che adesso lo fissava sospettoso, quel che sapeva? Non poteva dirgli che aveva lasciato che Sebastiano scendesse in apnea per verificare una delle leggende metropolitane più strambe del corso del Po. La prima volta che ne avevano sentito parlare erano al bar del circolo della pesca che a Sebastiano piaceva tanto, anche se lì la birra era sempre calda e sgasata. Era stato un pescatore a parlargliene. Gianni si chiamava, ed era proprio come uno si immagina un pescatore. Al bar Gianni, che si era scolato non si sa quante birre, di botto aveva detto a Sebastiano: «La vuoi sapere una storia?» e aveva preso a raccontare di un tunnel sottomarino, appena qualche bracciata sotto all’argine. E questo tunnel, un arco, a dire il vero, delimitato da pietre bianche e lucenti e tutto il resto, portava a un posto davvero straordinario. A percorrerlo tutto, secondo Gianni e secondo la leggenda, si sarebbe arrivati a quello che i pescatori del posto chiamavano il Regno delle Carpe giganti. Sempre secondo Gianni e la leggenda, le carpe di questo luogo erano cresciute a dismisura da secoli, per essersi alimentate in modo del tutto particolare. Avevano banchettato per generazioni con i resti di una nave naufragata che trasportava un vero e proprio tesoro. Erano quindi carpe giganti ripiene di gioielli, pietre preziose, ori. Sebastiano aveva deciso: ci avrebbe provato pure lui a cercare quel posto, per il solo gusto di farsi riportare in superficie da una carpa farcita di tesori come un novello re delle acque.

E Pietro, ci aveva davvero creduto? No, però pensava che, com’era accaduto altre volte, Sebastiano si sarebbe stufato, avrebbe cambiato idea.

Il poliziotto continuava a fissare Pietro in attesa di una risposta. Risposta che però non arrivò perché squillò il telefono. Il poliziotto allungò la mano per rispondere: spalancò la bocca, senza fiato, proprio come un pesce, poi riattaccò.

L’acqua entrò di colpo sfondando la porta dell’ufficio e prese a salire, su su fino a sommergerli entrambi. I suoi capelli e quelli del poliziotto ondeggiavano in tutte le direzioni. Pietro, i polmoni invasi, ingolfati, si sentì sul punto di annegare. Si agitò e provò a urlare inutilmente, ma per un attimo soltanto. Poi smise. Quando avvertì un bruciore intenso ai lati del collo, e poi qualcosa muoversi: un ondeggiare viscido di minuscole branchie. Rossicce, lo informava la sua vista periferica. E a quel punto Pietro riprese a respirare, in un modo diverso, in un modo nuovo.

Il poliziotto sembrava svenuto, o forse era morto annegato. Ora l’acqua era ovunque, ma Pietro scoprì di poterci camminare dentro, leggero, sospeso. Poteva raggiungere senza sforzo ogni angolo della stanza, il soffitto, o la finestra oltre la quale intuiva un muro d’acqua, altra acqua, e da qualche parte c’era pure Sebastiano con la sua stupida idea. Pietro avrebbe potuto aprire la finestra, raggiungerlo a nuoto, ma il telefono del poliziotto, che intanto ondeggiava a mezza stanza, continuava a squillare. Il suono era ovattato. Pietro sollevò la cornetta:

«Pietro, ma dove cazzo sei? Sono due ore che ti aspetto, ti sei portato via i vestiti».

 

Alice Cervia

Blam

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1 Comment

  • Mi ha ricordato l’ultimo giorno di vita di Jaff Buckley, raccontato con più garbo.

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