Un bosco, orme da seguire e un rapporto da salvare: «Il re» è il racconto di Matteo Romano
Solo adesso mi rendo conto che Marco me l’aveva detto: il tempo stava cambiando. Io però l’ho ignorato: ero concentrato a leggere le orme del cervo impresse sulla neve. Erano orme fresche, orme di un maschio, e bello grosso anche. Lo si intuiva dalla profondità. Ho sollevato lo sguardo e gli ho detto che ormai eravamo vicini. Abbiamo caricato i fucili e ci siamo inoltrati nel bosco, lungo le tracce dell’animale.
Ero in un santuario dalle colonne annerite, sopra di noi un immenso soffitto latteo, e noi lo stavamo profanando con la blasfemia dei nostri desideri.
Ho sentito un tonfo. Mi sono guardato intorno: un cumulo di neve scivolava giù da un ramo. Abbiamo proseguito. Ogni tanto mio figlio si guardava indietro, le nostre orme si sovrapponevano a quelle del cervo cancellandole. Ho stretto il fucile e ho alzato il passo. Cercavo di cogliere ogni rumore, ogni movimento.
Le tracce ci hanno condotto lungo un pendio. Lassù sprofondavamo nella neve con tutto lo stinco. Marco ansimando mi ha chiesto se potevamo fermarci un secondo, gli ho detto di muoversi, gli ho detto che non l’avrei più portato con me. Un enorme fiocco si è posato sulla manica del mio cappotto. Dovevamo fare in fretta, prima che cominciasse a nevicare sul serio.
Abbiamo camminato ancora per un po’, prima di apparirmi davanti agli occhi. Con un gesto brusco, ho arrestato il passo di Marco, lui ha capito. Ci siamo acquattati, muti, immobili. Non mi ero mai imbattuto in un esemplare così magnifico. Zampe scattanti, un manto lucido che dava sul rossiccio, più folto e scuro attorno al collo possente, e una macchia bianca sul dorso. La sua corona: un intrico appuntito e levigato alla perfezione da madre natura. Quel gioiello doveva esserselo meritato dopo mille battaglie vittoriose. Un re, ecco cos’era. E noi gli stavamo rendendo omaggio, ci inchinavamo innanzi a lui. Quel re però era già mio.
La nevicata s’intensificava. Ho imbracciato il fucile e nel mirino ho scandagliato l’imperturbabile pupilla dell’animale. Le sue narici emettevano uno sbuffo intermittente. Ho preparato il dito sul grilletto, ho trattenuto il respiro, ma uno sparo improvviso ha risuonato, tremendo, nelle mie orecchie. Mi sono voltato verso Marco: era la canna fumante del suo fucile. Gli ho gridato che era un coglione. Lui ha provato a difendersi, mi ha detto che non voleva, che il colpo gli era partito. Subito dopo ho cercato la bestia, ma non l’ho trovata. Ho raggiunto di corsa il punto in cui era, ho osservato le orme e le ho seguite. Alle mie spalle c’era il respiro affaticato di Marco che tentava di stare al passo.
Stavamo scendendo il pendio. Lungo il tragitto ho notato la bocca di una grotta. Abbiamo proseguito ancora, ma niente orme: la neve le aveva riempite. Infuriato, ho continuato la discesa, convinto che avrei ritrovato il mio re.
Eravamo di nuovo nella parte pianeggiante del bosco. Mi fermavo, guardavo in lontananza: nulla. Marco ha detto di tornarcene a casa, che ormai era tutto inutile, ma io sono rimasto zitto. La neve cadeva fitta, vagavamo senza meta: mi sono arreso. Mi sono orientato, ho riconosciuto la strada dell’andata, ci siamo avviati verso l’auto. Finché la nebbia non ci è venuta incontro e noi non abbiamo avuto scelta: ci siamo lasciati inghiottire.
Il silenzio era tale che non si sentivano neppure i mei passi. Marco mi ha afferrato il braccio, aveva paura. Mi sono fermato a riflettere. Non avremmo potuto chiamare nemmeno i soccorsi, i cellulari erano in macchina: era la nostra regola per quando andavamo nei boschi. L’unica soluzione era sfuggire alla nebbia, ripararsi e attendere la fine della nevicata. La grotta: ci saremmo accampati lì. Ho stretto la mano di Marco, come da bambino quando lo aiutavo ad attraversare la strada, e gli ho ordinato di non mollarla mai. Siamo tornati indietro, verso il pendio.
Avanzavamo ciechi. Sentivo Marco tremare e ansare. Poi la nebbia ha cominciato a diradarsi, ho riconosciuto certi alberi, certi anfratti. Risalire il pendio però è stato ancora più difficile. Sprofondavamo fin sopra le ginocchia. Non mi sentivo più il naso e le labbra. Ho guardato il cielo che imperterrito scaricava neve e iniziava a oscurarsi. Solo la disperazione ci ha fatto raggiungere la grotta. Mentre ci addentravamo in quelle tenebre, ho ripensato alla pupilla del re. Intirizziti, ci siamo accucciati, ci siamo abbracciati come non succedeva da tempo. Poi il sole è tramontato e l’oscurità è stata totale. Con un filo di voce, Marco si è lamentato del freddo: gli ho dato i mei guanti. Nel buio della grotta riecheggiavano i suoi singhiozzi. Mi ha chiesto scusa, mi ha detto che, se non gli fosse partito il colpo, non ci saremmo mai ritrovati in quella situazione. L’ho rassicurato, non era colpa sua, era colpa mia, ma non sono riuscito ad ammetterlo. Ha balbettato che non voleva morire di freddo. Gli ho promesso che ce l’avremmo fatta, ma che non ci saremmo dovuti addormentare, per nessun motivo. Per non dormire ho iniziato a pregare, fra me e me.
Mi sono svegliato di colpo. Era ancora notte, aveva smesso di nevicare. Ho chiamato Marco, gli ho detto che aveva smesso di nevicare, ma lui non si svegliava, l’ho scosso, una due più volte. Non si muoveva.
Matteo Romano
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Ciao Matteo, mentre leggevo il tuo racconto e mi sono ritrovato nella grotta con il protagonista e Marco, quasi ho avuto un sussulto nel voltarmi verso l’uscita. Forse complice il buio all’esterno, non riuscivo a credere ai miei occhi. Non so se quell’uomo sia apparso anche a te. Ha detto di chiamarsi Mike Vronsky. Ho letto sul suo volto tutta la stanchezza del viaggio che aveva dovuto compiere per arrivare sino a lì da Clairton, Pa. Si è fatto strada all’interno dell’antro sbattendosi via coi palmi delle mani la neve che gli era rimasta attaccata ai pantaloni, ha tolto con fastidio il berretto di lana blu calato sulla testa, ha scarrellato con un gesto consumato il proiettile dal suo Ramington afferrandolo al volo con la mano, si è inginocchiato davanti ad un papà ancora tremante in preda alla confusione mentale e piazzandogli davanti agli occhi quella singola munizione talmente scintillante da specchiarcisi dentro gli ha detto: «Un colpo solo. Questo è questo. Ficcatelo bene in testa». Le colpe dei padri ricadono sui figli, grazie per avere evocato nella mia mente personaggi di tale imponenza.