Il racconto della domenica: Vuoti a perdere di David Valentini
Per la terza volta si è ritrovata a chiedersi dove fosse Riccardo. Credeva che oggi – almeno oggi, Cristo! – sarebbe stata l’occasione giusta per stanarlo dal buco in cui ha deciso di trincerarsi.
Si è voltata di nuovo, sperando di scorgere fra la marea di teste grigie quella bionda del fratello minore, ma ovunque c’erano solo occhi arrossati e sguardi severi. Uno zio che non vedeva da anni e che risultava tanto più vecchio del ricordo che ne conservava – lui sul balcone insieme al padre il giorno dell’altro funerale, ormai quattordici anni fa, entrambi con la sigaretta in mano; uno a compiangere una sorella, l’altro una moglie – ha aggrottato due sopracciglia che parevano i pini innevati dei boschi vicino Bolzano; lei ha scosso la testa come a dire tranquillo, torna al tuo lutto.
Dove stava quel coglione?
Poco dopo ha sentito sulla spalla la mano di Filippo. Intorno a lei erano tutti in piedi e mormoranti liturgie – teste chine, sguardi bassi – ma, quando si è alzata, gli altri sono tornati seduti. Alla smorfia di rimprovero del fratello maggiore per quello sfasamento avrebbe voluto rispondere che il suo disappunto era fuori luogo, se non ipocrita, dato che si è sempre dichiarato ateo eppure ora era qui, a blaterare salmi e preghiere, e non capiva se lo facesse per rispetto all’uomo che l’aveva cresciuto, per non far parlare i parenti o forse per evitare discussioni con la moglie. Poi si è detta che non importava, che loro erano ancora vivi e avevano tutto il tempo per litigare e rinfacciarsi le cose, allora ha tirato fuori il telefono e ha controllato l’ultimo messaggio a Riccardo. Accanto c’era quell’unica spunta, solitaria come le croci in vetta alle montagne.
È andata sugli sms e ha scritto Dove cazzo sei, ha cancellato, ha ricominciato ma, dopo aver digitato Il fune, ha cancellato di nuovo. Nel rimettere in tasca il cellulare ha toccato il foglietto spiegazzato. Lo ha guardato come fosse un oggetto alieno.
Fede, tutto ok? ha chiesto Filippo alla sua destra. Quello che era stato un ragazzo dagli occhi accesi e la bocca colma di contorte domande sull’esistenza, così complesse da formulare che la lei adolescente spesso non riusciva nemmeno a capirle – Fil, ma che vuol dire ontologico, cos’è la metempsicosi, che diamine significa Weltanschauung? – ora era un ultraquarantenne con due fondi di bottiglia sugli occhi che coprivano a malapena le borse viola appese là sotto. Ogni volta che tornava da Ora lo trovava più invecchiato, più simile al padre che li aveva generati e che andava riempiendosi di gas qualche metro più in là.
Non è un po’ tardi per fare il fratellone premuroso? ha risposto. Poi, davanti al suo sguardo interrogativo, ha aggiustato il tiro. Sto cercando di capire se Riccardo ci degnerà della sua presenza. Almeno oggi, dannazione.
Filippo ha poggiato la mano sulla sua e ha bisbigliato qualcosa che lei, distratta dalla testa della donna che faceva capolino alla destra di lui, non ha compreso. Gli ha scostato la mano, si è avvicinata al suo orecchio e gli ha sussurrato di tornare fra i ranghi, altrimenti rischiava di beccarsi la cazziata della generalessa.
C’è stato qualcosa nell’irrigidirsi dell’uomo – era uomo la parola giusta, sì: per la seconda volta in pochi minuti è tornata a quella considerazione, mentre il prete continuava con la sua lagna cristologica; era come se solo ora, nel giorno in cui tutto ciò che restava del loro legame fraterno marciva fra le pareti di legno, realizzasse quanto quei loro sedici anni di differenza fossero sempre stati un abisso incolmabile – c’è stato qualcosa in quell’irrigidirsi che le ha rivelato tutta la concretezza di due persone che parevano aver esaurito la dose di felicità loro concessa. È tornata col pensiero all’ultima cena tutti insieme, un paio di mesi prima: lei, il padre che era ancora vivo e, a parte i capelli grigi, non aveva proprio l’aria di uno che stava per crepare stroncato da un ictus, Filippo e la sua famiglia inquietante, quei due figli poco più che ventenni che hanno sempre faticato a chiamarla zia, un appellativo che anche lei associava solo a quella marmaglia anonima di vecchie zitelle che condividevano col padre il cinquanta per cento dei geni. Più fuori luogo dell’albero agghindato accanto al caminetto, c’era stato solo il posto vuoto di Riccardo che lei aveva insistito per lasciargli. Nelle orecchie ha ancora la voce lontana del padre che chiamava i numeri della tombola mentre lei, nel vuoto della campagna rischiarata dalle stelle, tentava di non strozzarsi con tutte le scuse che il caro fratellino continuava a gettarle addosso al telefono e che finivano per rimanerle incastrate in gola.
Allora come oggi, la stessa domanda le ronzava in testa: solo a lei mancava? Solo lei sperava di sentirne risuonare i passi lungo la navata e vederlo sedersi accanto a lei, col suo solito sorriso da schiaffi e gli occhi supplicanti un perdono che gli avrebbe concesso seduta stante?
Si rigirava fra le mani il foglietto. Lo ha schiuso e ha dato una scorsa al discorso. Quando lo aveva scritto le era parso coinvolgente al punto giusto: si era persino figurata la voce uscirle chiara e fresca come un ruscello e l’eco rimbalzare sui marmi, incanalarsi fra le colonne. Ora invece, mentre il prete terminava l’omelia, si soffermava su parole come rapporto speciale, amore infinito, riposare in pace, e d’un tratto ha sentito il vuoto nella pancia.
Quindi si è alzata e, lanciando una scusa verso le panche, ha detto che le serviva una boccata d’aria e che sarebbe rientrata subito.
Invece adesso, quasi due ore dopo, anziché essere con Filippo a piangere davanti a una lapide, si ritrova il Circo Massimo alla sinistra. Non ha memoria delle strade prese per arrivare lì: mentre la radio mandava canzoni su canzoni, lei d’istinto frenava, accelerava, suonava il clacson.
Parcheggia in una via laterale. Si stringe nel giubbotto e prende a camminare fra le frotte di turisti in coda per vedere la Bocca della verità.
Si affaccia sul Tevere e resta un quarto d’ora a fissare lo scorrere indolente dell’acqua. Una coppietta passa di lì tenendosi per mano. Mentre si baciano se li immagina scopare, poi discutere e lanciarsi oggetti, prendersi a insulti. O magari no. Magari fra loro finirà come fra lei e Lorenzo, col silenzio di un sms. Che cretina, si dice, andare a sbattere le corna a Bolzano, lontano da tutti, per uno come lui.
Calpesta i sampietrini dell’isola Tiberina, scansando la strana mescolanza di medici e preti. Scrive a una sua amica che le chiede come sta, com’è andata la funzione. Quanto conta di stare giù, ché non c’è fretta di tornare se ha bisogno di tempo. Le dice che deve ancora capirlo, che qualcuno dovrà occuparsi dell’azienda di famiglia: Filippo è docente universitario, l’unica cosa che sa fare è passare le giornate sui libri, figurati se può mettersi a capo di qualcosa; e Riccardo… be’, lo sa.
Quando raggiunge Campo de’ fiori, qualche stella è già spuntata. I ristoranti si vanno riempiendo, le prime comitive si radunano sotto la statua di Giordano Bruno. Una donna nera vestita di abiti colorati le offre un braccialetto. Buona fortuna, dice con un sorriso di denti bianchissimi e perfetti. Le molla una banconota da cinque, quella ringrazia, la benedice, tira fuori una piccola tartaruga in onice. Regalo, dice.
Mentre in alto si fa buio, la città si accende. Piazza di Spagna è piena di artisti intenti a disegnare paesaggi, ritratti, caricature. Dei poliziotti passeggiano con un militare lanciando occhiate torve tutt’intorno, i buttadentro si sperticano con buonasera e venite qui per la migliore carbonara. No grazie, continua a dire. Levatevi dalle palle, vorrebbe dire.
Vede due ragazzi, tedeschi o nordeuropei, baciarsi davanti alla statua del Danubio. Avranno poco più di vent’anni. Uno dei due si stacca e dice qualcosa, vede lo sguardo dell’altro addolcirsi di felicità. Rivolge loro un sorriso amaro, pensando che se suo padre avesse capito questa semplice cosa, quattordici anni fa, forse oggi sarebbero ancora una famiglia.
Dopo un lungo giro torna alla macchina, sulla quale una comitiva ha appoggiato una decina di bicchieri di plastica pieni di ghiaccio. Solo dopo un quarto d’ora si accorge di avere i fari spenti.
Arriva sotto la casa del padre. Le chiavi non entrano nella toppa, perde cinque minuti prima di realizzare di avere in mano quelle dell’appartamento di Ora.
Sale su, accende le luci e subito la invade l’odore della carta da parati vecchia di anni, delle piante che andrebbero annaffiate, di mobili in legno pieni di roba da controllare.
Chiama Filippo senza ottenere risposta. Forse è a cena. Apre il frigorifero e tira fuori delle cotolette di pollo, poi guarda la data e le butta nel secchio. Si accorge di non avere fame, e di non ricordare l’ultima volta in cui ha mangiato. Rovistando nella dispensa trova la sua vecchia tazza con i gatti. Mette sul fuoco una camomilla.
Guarda il tavolo con due sedie, un cuscino più usurato dell’altro. Si chiede come trascorressero le giornate dell’uomo che l’ha messa al mondo: cosa ha fatto la mattina, dov’è andato, quali gesti ha compiuto senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta, prima che la vita diventasse grigia, gli roteasse intorno, si facesse nulla.
Apre la finestra della cucina, esce sul balcone. Per anni si è affacciata da lì, in mano il primo caffè e la prima sigaretta della giornata. Le solite auto, la solita gente, le solite conversazioni. Non ti alzi mai dal letto sapendo che proprio quel giorno le cose cambieranno per sempre.
Adesso quello che vede le sembra straordinario: al posto della farmacia l’ennesimo negozio cinese, gli alberi hanno fatto spazio a delle torrette per auto elettriche.
Allunga lo sguardo in lontananza, là dove la via svolta per terminare qualche metro dopo nel parchetto di fianco alla sua vecchia scuola media.
Una macchina si sta parcheggiando nello spazio riservato alla fermata dell’autobus. Lei resta a guardare tutte le manovre necessarie per entrare in quello spazio angusto, finché i fari non si spengono.
Quando il guidatore esce dall’auto e alza la testa, i loro sguardi si incrociano. La tazza le scivola fra le mani. Non si accorge neanche del liquido bollente sui pantaloni: è già all’ingresso per raccattare il cappotto, è già lungo le scale che rischia di spezzarsi l’osso del collo.
Fuori dal portone fa appena in tempo a vedere la Cinquecento blu scomparire dietro la curva. Rimane così, col fiato corto e i pensieri spezzati, a fissare la fine della strada.
Che cazzo. Che cazzo.
Torna dentro, l’attesa per l’ascensore appare infinita. Saluta la signora Martini, un tempo in grado di far girare persino i sassi, oggi una sciancata che scende in vestaglia per portare a spasso il cane.
Dalle plafoniere lasciate accese all’ingresso si propaga una luce gialla. Rovista nella borsa, ne getta il contenuto sul tavolo del salotto. Si lascia cadere sul divano, poi si dà uno schiaffo sulla fronte e tira fuori il cellulare dalla tasca del cappotto.
Compone quel numero impresso a fuoco nella memoria. Squilla più volte senza risposta, finché scatta la segreteria. Rimane in silenzio qualche secondo a mordersi le unghie, poi quando la voce registrata termina dice Riccardo, eri tu? Richiamami.
Va in bagno per sciacquarsi la faccia, accende la lampadina dello sgabuzzino e lancia un’occhiata alle scatole di pomodori, tonno, fagioli, poi torna in salone. Ricompone il numero, di nuovo squilla e di nuovo attende che parta la segreteria.
Senti Ricca’, se eri tu qua sotto e te ne sei andato per non incontrarmi… be’, sei un coglione. Papà è morto, li hai letti i messaggi?
Prende fiato e, insieme alla saliva, sente di aver ingoiato anche la pazienza.
Speravo venissi almeno oggi e invece… Lo sai cos’è che mi urta di tutta ‘sta storia? Avere un fratello codardo e orgoglioso, che neanche davanti alla morte è riuscito a fare un gesto di riconciliazione. E allora vaffanculo, frocio del cazzo che non sei altro!
Lancia il telefono sul divano e va in camera del padre. Si guarda intorno, evitando il letto dove lui e sua madre hanno dormito per anni, e che per tanti altri è rimasto freddo su un lato. Anche se i dettagli del volto e della voce cominciano a confondersi, la verità è che le manca. A volte passano giorni senza che ci pensi, poi dal nulla si ritrova con le fitte allo stomaco. Una sua collega le ha detto che non passerà mai, che anche quando sarà vecchia – più vecchia di quanto era sua madre quando ha compiuto quel gesto orribile – continuerà a sentire quelle fitte allo stomaco. È un’assenza senza fine, a cui se ne aggiungeranno altre sempre nuove. La vita intera sembra essere un mancare qualcosa, un perdersi qualcos’altro.
Apre il primo cassetto del comodino, poi il secondo, tira fuori taccuini pieni di numeri e ricette mediche, un orologio fermo a mezzogiorno, pile scariche e vecchi cellulari.
Sulla sedia riposa l’ultima giacca indossata. Ci si aspetta che gli oggetti dei morti siano rivestiti da una specie di aura, che rilucano nell’oscurità in cui sono immersi. Quella giacca ha qualcosa di banale per il modo che ha di starsene così, abbandonata e lisa.
Fruga nella tasca interna, prende il pacchetto di sigarette e l’accendino. Suo padre ha fumato Marlboro fino all’ultimo giorno.
Torna sul balcone. Osserva le stelle nella fetta di cielo visibile. Riconosce la coda dell’Orsa maggiore e pochi altri tranci di costellazioni. Da piccola ci si divertiva con Filippo, nella casa in campagna: lui le spiegava le storie dietro quei nomi eroici mentre Riccardo se ne stava su una sdraia a leggere fumetti, poi il giorno dopo lei riutilizzava quei racconti con quelle due o tre amiche che bazzicavano il litorale di Sperlonga. Anche riguardo a cosa fare di quella casa bisognerà parlare. È un’incombenza che spetta a loro tre, loro malgrado. È il dovere dei vivi.
Schiaccia la sigaretta nel posacenere, mette le mani in tasca, tocca qualcosa di solido.
La tartaruga d’onice non ha occhi né bocca, è solo una forma abbozzata. Passa le dita fra le scanalature della corazza. È fredda e liscia a contatto con la pelle.
Ed è qui, in questo momento, ripensando all’essere disteso nella camera ardente, altrettanto freddo, altrettanto liscio, sul volto un’espressione di pace, innaturale come una maschera veneziana – è qui, in questo momento che Federica si perde nelle lacrime, cullata dalla notte e dalla solitudine di una casa che un tempo le appartenne e che ormai le è estranea.
David Valentini