Il racconto della domenica: Via Triste di Cosimo Buccarella

 Il racconto della domenica: Via Triste di Cosimo Buccarella

Illustrazione di Francesca Cannata

Questa storia finisce qui, sotto la finestra al primo piano di questa palazzina di periferia.

Tra questo edificio e quello adiacente, la cosiddetta “palazzina 5”, ci sono questi tre cassonetti dell’immondizia. Cassonetti, sì, qui il porta a porta non è ancora arrivato. Finisce qui, quindi, questa storia, con una casa vuota e le cose che continuano ad andare come sempre vanno.

Ma sentiamo Osvaldo, collega di Giovanni: «Lui mi mostrava sempre queste foto, sapete? E io gli dicevo: “Giova’, ma son tutte uguali!”»

«E lui?»

«Lui mi guardava scandalizzato. “Uguali cosa?”, diceva “Guarda qua: l’altro ieri due sedili d’auto, tre giorni fa una marmitta”. Io cercavo di buttarla sul ridere, gli dicevo: “Se oggi ti buttano un treno di gomme, ti fai la macchina nuova”.»

«Ma Giovanni non apprezzava che si scherzasse su queste cose.»

«No, per carità. Lui pensava che lo prendessimo in giro. Ma noi non è che non capivamo quanto era brutto per lui avere tutta quella spazzatura sotto la finestra, noi scherzavamo perché che ci vuoi fare? È così che funziona, no?»

Sappiamo così che Giovanni non sopportava le facezie dei colleghi. Per lui quella monnezza sotto casa era una faccenda seria, terribilmente seria, che occupava i suoi pensieri così a lungo e con tale vigore da fargli trascurare persino la famiglia.

Ecco cosa ci ha detto un’amica della moglie, Elena: «Lei mi diceva che Giovanni stava uscendo pazzo con questa storia dei rifiuti. All’inizio guardava dalla finestra solo quando sentiva un rumore sospetto. Tipo: se sentiva come un rumore di qualcuno che trascina qualcosa sul marciapiede, lui lasciava tutto quello che stava facendo e correva alla finestra a vedere chi era!»

«E li vedeva?»

«E come no? Ne vedeva tanti! Ma buttavano piccole cose. Sì, qualcuno lasciava una borsata di spazzatura per terra, ma è perché i cassonetti sono malandati: uno funziona poco, l’altro è scassato proprio, lo devi aprire con le mani e ti sporchi. E allora la gente qualche sacchetto lo lasciava lì accanto, ma niente di che. Quello che voleva Giovanni, era beccare quello che buttava le cose grosse.»

«Che cosa intende per “cose grosse”?»

«Beh, c’era qualcuno che, la notte o comunque quando era sicuro che non c’era in giro nessuno, per terra o per aria, che lo poteva vedere, abbandonava rifiuti ingombranti: gabinetti, lavandini, reti di letti, scale a pioli, tubi di eternit, queste cose qua.»

«Ed era questo individuo misterioso che Giovanni voleva cogliere sul fatto?»

«Sul fatto, sì, sì. Era la sua fissazione, diciamo.»

«La sua Moby Dick.»

«Mah, non lo so… Che è ’sta Modi Bic? Una penna?»

Dunque, Giovanni inseguiva una sua personalissima Moby Dick: era intenzionato a scoprire chi era che gettava decine di rifiuti ingombranti, con cadenza quasi regolare, ai piedi dei cassonetti sotto la sua finestra, al primo piano del condominio conosciuto come “palazzina 4”. E per un po’ aveva cercato di coinvolgere in questa sua crociata anche le forze dell’ordine.

Sentiamo la testimonianza del comandante della Polizia Municipale: «Sì, di segnalazioni il signor Russo Giovanni ne ha effettuate un certo numero. Noi, come Polizia Municipale, abbiamo sempre risposto intervenendo tempestivamente sul campo. Purtroppo, abbisogna in questa sede far notare come le segnalazioni del signor Russo avvenissero sempre dopo che il crimine era stato commesso, mai prima o al limite durante, e questo ovviamente precludeva alla Polizia Municipale ogni possibilità d’intervento».

Perciò Giovanni lottava, lottava con tutte le proprie forze contro il degrado di quel pezzo di mondo che amava chiamare casa. Le autorità non potevano fare niente per lui, nonostante adducesse particolareggiate prove fotografiche dei cumuli d’immondizia accatastati attorno ai cassonetti. E noi oggi possiamo proporvi uno scoop: l’ultima foto scattata dalla macchina fotografica di Giovanni, rinvenuta anch’essa in mezzo al cumulo di rifiuti, allo stesso cumulo di rifiuti che era diventato l’ossessione di Giovanni, la sua Moby Dick. La vedete? È un ammasso informe di monnezza. La testiera di un letto, alcuni metri di rete per recinzioni, degli pneumatici e una batteria d’auto, tubi di varie misure. E soprattutto, vedete, in cima al cumulo, il cartello in alluminio che reca il nome della strada, VIA TRIESTE, che qualcuno ha staccato dal suo sostegno e gettato sui rifiuti, dopo aver cancellato la prima ‘e’, così che sul cartello si legga: VIA TRI█STE.

Negli ultimi tempi, la guerra agli imbrattatori era diventata una vera e propria ossessione per Giovanni, al punto che, trascurando il lavoro e la moglie Elena, aveva iniziato ad appostarsi di notte per sorprendere il misterioso individuo a cui dava la caccia. Ecco, si nascondeva qui, in questo angolo buio ai piedi della palazzina 5, posta di fronte a quella in cui viveva. Questo angolo usato spesso come orinatoio da senzatetto e ubriachi, come testimonia il rivolo di sudiciume disciolto che da qui diparte e si allunga verso il marciapiede di cemento grigio. Si appostava qui, dunque, Giovanni, e più di una volta deve aver fatto prendere un bello spavento a chi proprio verso quest’angolino nascosto si apprestava per fare il proprio bisogno la notte.

Abbiamo raccolto la testimonianza di un senzatetto: «’Ccamadosca! Andavo lì per i fatti miei, mi guardavo intorno, sì che c’era immondizia, ma che cazzo me ne frega? Io ci stavo già col pisello in mano, ma sì, camminavo ancora ma c’avevo il pisello in mano perché io son uno pulito, non è che voglio rischiare di farmela nei pantaloni. Vado lì, sicuro, manco sto davvero guardando dove vado perché mi libero lì quasi ogni sera, hai capito o no? E di colpo vedo due occhi che mi guardano. ’Ccamadosca! C’ho buttato una bestemmia che ai gatti neri s’è rizzato il pelo sul collo, capisci o no?»

Era ben sveglio, dunque, Giovanni. Attendeva vigile l’arrivo della sua Moby Dick, ogni notte. Rientrava in casa al mattino e dormiva per tutto il giorno. Non mangiava nemmeno. Si alzava all’imbrunire e veniva qui, a presidiare il suo angolo, dove espletava ormai anche i bisogni fisiologici. Consumato dall’attesa, dalla veglia, dal digiuno, Giovanni non si accorse nemmeno che la moglie Elena, aveva abbandonato la loro casa, quella casa in cui il marito, roso dalla follia, sembrava non voler più abitare.

Per quanti giorni Giovanni è sopravvissuto in questo stato? Non lo sappiamo di sicuro, sappiamo che quando Maria l’ha trovato è andata così: «Era notte. Beh, io lavoro quasi sempre di notte. Questo è il mio laboratorio, sì, no, non sono sculture, è una serie di installazioni artistiche. Si intitola “sei quello che fai”. Io raccolgo moltissimi oggetti per le mie installazioni, che sono fatte esclusivamente con materiale di recupero. E quindi ho tanti elementi in eccesso che devo smaltire, buttandoli da qualche parte. Quella notte stavo andando a gettare un manichino. Lo tenevo per i piedi e gli trascinavo sul marciapiede la testa coperta da una parrucca riccia. Lo buttavo perché non mi serviva più, l’installazione che volevo fare non la potevo più fare, perché nel frattempo il soggetto era cambiato. Comunque, ero quasi arrivata al cassonetto quando mi sento afferrare un polso. “Ommadonna!”, grido “Chi sei? Che vuoi?”

“Tu, chi sei?” mi dice una voce. Ma una voce brutta, come vi devo dire, brutta assai, rovinata. Ecco, rovinata, come un disco che gratta.

“Io sono Maria,” dico, “abito qui sotto. Ma tu chi sei? Giovanni? Ommadonna, Giovanni, non ti si riconosce più!”

“Perché stai buttando questo manichino?” mi dice. E in quel momento lo guarda e gli occhi gli si fanno tondi tondi. Ormai era tutto occhi, uno scheletro con la pelle che gli pendeva molle sulla faccia, ma in quel momento ancora di più.

“Assomiglia a mia moglie” dice guardando la parrucca.

“Essì che le somiglia” gli faccio. “Rappresenta proprio tua moglie. Cioè, la doveva rappresentare. Ma adesso che lei se n’è andata non ha più senso metterla nell’installazione.”

Lui alza gli occhi e mi guarda, ma sembrava che non mi vedeva. Poi mi chiede: “Andata? Installazione?”. Allora decido di portarlo al laboratorio. Qualche cosa gliela devo pure spiegare, no? Lo porto qui al laboratorio e gli faccio vedere le installazioni. Gli mostro la prima, dove c’è questo manichino che rappresenta Giovanni che fotografa questa specie di cumulo di rifiuti stilizzato. C’è un bidè, vedete, una poltrona mezzo sfondata, una rete da letto arrugginita… Poi lo porto dalla seconda scultura della serie, dove c’è quest’uomo di tubi cromati che si piega in due, come se ridesse, vedete? Rappresenta tutti quelli che ridevano di lui e della sua fissazione. E quest’altro fatto di bottiglie di plastica che si allontana, con la macchinetta fotografica appesa al collo, è sempre lui, Giovanni, che si metteva lì a fotografare la monnezza.

“Ho usato le bottiglie per simboleggiare la fragilità” gli dico. Poi gli mostro quest’altra, dove c’è questo balcone che ho realizzato tagliando tubi di vecchie canne fumarie, che sembra tanto il balcone di casa sua, con su due manichini, l’uomo che fotografa i rifiuti, e la moglie coi capelli neri ricci che lo guarda da dietro con le mani piantate sui fianchi.

Lui guarda l’opera ed esclama: “Elena!”

Ma che dolce! Con un filo di voce che lo sentivi appena! E io gli dico: “Essì, vedi? Sono due installazioni. Questa dove ci siete tu e tua moglie, e questa accanto che è identica.”

 Lo prendo per le spalle e lo giro come la ballerina di un carillon verso l’altra installazione, che è un altro balcone identico al precedente. “La differenza,” gli spiego “è che in quest’altra tu sei sempre uguale, e tua moglie invece l’ho fatta di fil di ferro, come se fosse trasparente, no? Perché se n’è andata, capito?”

Lui ha guardato la seconda installazione, poi il manichino che stavo trascinando verso i rifiuti e che lui mi ha costretto a riportare indietro. E lì ha capito, poverino no? E si è messo a piangere, povero, sembrava un bambino. Si è piegato sulle ginocchia come un fiore che appassisce ed è finito con la faccia nascosta nelle mani.

“Non fare così” gli ho detto. “È una cosa bella essere l’oggetto dell’ispirazione di un’artista. Se non c’eri tu che fotografavi l’immondizia, allora non c’ero io che costruivo queste installazioni, e siccome per costruirle devo raccattare materiale di scarto e gettare quello in eccesso…”

Allora lui ha alzato la testa e ha continuato al posto mio: “Allora è colpa mia anche per l’immondizia gettata sotto ai cassonetti. Sei tu che la butti. È il tuo materiale in eccesso. Sei tu che la butti, ma per causa mia: sono io che la genero, per il solo fatto di fotografarla!”

“Ecco!” gli ho detto. “Lo vedi che hai capito?”

E lui sapete che ha fatto? S’è alzato e ha sfasciato tutto, che ho dovuto fare una faticata per ricostruire tutte le installazioni quando ho saputo che venivate voi della televisione! Ha spaccato tutto! Quando s’è fermato ha respirato forte, ha scosso la testa, s’è girato verso la porta e se n’è andato. Così!»

E così infatti si conclude la storia di Giovanni, o forse ne inizia una nuova, chissà. Elena non ha voluto parlare con noi, non sapremo mai se Giovanni sia andato a trovarla, quella notte, se hanno parlato. Non sappiamo dove Giovanni sia andato quando ha lasciato il laboratorio di Maria. Quello che è certo è che non ha fatto ritorno alla propria casa, che da allora giace abbandonata, con le imposte della finestra sul balcone ancora aperte. Quel balcone da cui Giovanni, nei giorni prima che la sua ossessione lo conducesse alla follia, osservava pensoso la sua via Triste e quei rifiuti che ne limitavano e definivano l’esistenza.

Cosimo Buccarella

Blam

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