Il racconto della domenica: Una promessa non mantenuta di Gianfranco Martana
In quel tiepido pomeriggio di marzo, Piero camminava di buon passo costeggiando le villette del rione con lo zaino della scuola in spalla. Nell’alto dei cieli le nuvole correvano come pecore pungolate dal pastore, proiettando sulla terra rapide sequenze di ombra e luce.
«Dove vai?» chiese Daniela quando lo vide passare davanti al giardino di casa sua.
«A seppellire uno scheletro.»
«Aspetta, vengo anch’io!»
La sera di Halloween, Piero aveva bussato alle porte dei vicini insieme a due amici più grandi di lui. Gli avanzavano dei costumi da Carnevale e avevano pensato di farli fruttare. Piero si era vestito da Harry Potter, gli altri due da Batman e da pirata dei Caraibi. Un maghetto, un uomo pipistrello e uno che, in mancanza di più specifici attributi, poteva farsi passare per un mezzo diavolo. Con una mano Piero reggeva una busta, con l’altra stringeva dietro la schiena le vertebre di uno scheletro di plastica che penzolava bianco e lucente, col cranio reclinato su un lato e le orbite fluorescenti. Gli amici avevano le buste e nient’altro, e le tenevano aperte con entrambe le mani, come becchi spalancati di uccellini al nido. Chi usciva coi dolcetti li lasciava cadere nelle buste di quei due e si spicciava dicendo: «Poi dividete.» Se qualcuno invece usciva a mani vuote, i due amici correvano subito a cercarsi un’altra porta, mentre Piero richiamava lo scheletro dal suo torpore, lo sventagliava contro quegli incauti con muggiti da oltretomba e raggiungeva gli amici di corsa, con la busta semivuota che frusciava e il vento che fischiava fra le costole dello scheletro. Mentre li rincorreva si vergognava di loro, perché mancando alla promessa dello scherzetto avevano ridotto quella scorribanda a volgare accattonaggio. Tornato a casa col povero bottino che gli era toccato a seguito di una ripartizione iniqua, Piero aveva abbandonato lo scheletro in un angolo della sua stanza e se n’era dimenticato fino a quando non gli era apparso in sogno.
«Dove lo vuoi seppellire?» domandò Daniela.
«Sotto l’albero vicino alla scuola.»
«E perché lì?»
«Perché lì c’è la terra. O vuoi andare in campagna?»
«No, in campagna ho paura.»
«Allora stai zitta.»
Daniela stette zitta, però si risentì. Piero aveva un anno più di lei ma erano alti uguale: come si permetteva di trattarla in quel modo?
Arrivarono in piazza dal lato della scuola, seguendo il parapetto che affacciava sulla valle. Al centro dei giardinetti c’era un olmo magnifico, sull’altro lato un baretto scalcagnato con un tavolino occupato da tre uomini. Piero tirò fuori dallo zaino una pala di plastica, quella che usava al mare per scavare la sabbia, e si accucciò dietro il tronco poderoso per lavorare indisturbato.
«Mica è cattivo?» domandò Daniela quando intravide il pallido cranio dello scheletro.
«Ma non vedi che è morto? Se no perché sono venuto a seppellirlo?»
«Non lo so, non mi piace.»
«Non ti ho chiesto io di accompagnarmi» replicò Piero con la sua aria sprezzante.
Non pioveva da giorni e la terra era dura, niente a che vedere con la cedevolezza della sabbia. Piero riuscì appena a raschiarne via uno strato sottile prima che la pala si spezzasse, commentò la disgrazia con una parolaccia che a Daniela non piacque e cominciò a scavare con le mani.
«Muoviti, fai come me!»
Si misero d’impegno, ma avevano mani piccole e tenere che alla terra facevano il solletico. Piero sputò davanti a sé.
«Sputa anche tu, con la terra bagnata è più facile.»
Daniela ci provò, ma le venne fuori solo qualche sparuta gocciolina, così Piero sputò anche per lei. Aveva imparato da poco a generare saliva a comando, e si stava allenando con i rutti. La bocca e la gola si andavano trasformando in una fucina di nuove abilità e nuove soddisfazioni.
«Perché non andiamo a prendere l’acqua alla fontana?» propose Daniela.
«E come la portiamo fino a qua?»
«Nello zaino!»
«Ma sei scema? Mia mamma mi ammazza!»
«Lo facciamo asciugare al sole.»
«Ma non vedi che fra poco tramonta?»
«Allora ci riempiamo la bocca e veniamo a sputarla qua.»
«Questa è una bella idea, brava!»
Daniela era felice e corse per prima alla fontana. Se ancora sopportava le prepotenze dei maschi era perché senza di loro si sarebbe persa un sacco di avventure. Lasciò cadere un filo d’acqua dal rubinetto e si riempì la bocca fino a quando le guance quasi non scoppiavano, poi lasciò il posto a Piero, che diede al rubinetto un altro mezzo giro. Le femmine, poverine, si spaventano pure per due gocce d’acqua.
Tornati all’olmo, sputarono l’acqua che non s’era versata nel cammino, e in un baleno la videro sparire sottoterra, un alone più scuro come unica traccia del suo passaggio.
«Scaviamo prima che si asciuga, poi torniamo alla fontana.»
«Va bene» disse Daniela, e si mise all’opera; ma qualcosa ancora non le tornava.
«La bara non l’hai portata?»
«A che serve?»
«Nemmeno una coperta? Non ha freddo?»
«Le ossa non hanno freddo.»
«E tu che ne sai?»
«È la pelle che ha freddo, perciò ti viene la pelle d’oca, ma gli scheletri la pelle non ce l’hanno.»
Quella spiegazione non la convinceva, ma in mancanza di argomenti migliori preferì tacere.
«Che state facendo?»
Era un uomo sulla trentina quello che aveva parlato, sbucando da dietro il tronco come uno scherzo di Halloween. Poco più in carne dello scheletro, aveva denti marci e corti capelli brizzolati, e li fissava con un sorriso che poteva essere amichevole o minaccioso. I bambini lo conoscevano di vista, le mamme gli avevano detto di non dargli confidenza.
«Stiamo scavando» disse Piero.
«Questo lo vedo, ma perché?»
«Dobbiamo sotterrare uno scheletro» rispose Daniela, indicando lo zaino.
«Uno scheletro? Come vi è venuto in mente?»
Piero tirò su le spalle. Non poteva dirgli che lo scheletro gli era apparso in sogno e lo aveva pregato di farlo – o forse ordinato, già non ricordava più bene – altrimenti quell’uomo avrebbe riso di lui fino alla morte.
«Sotto terra ci vanno i morti freschi, gli scheletri bisogna tirarli fuori. E sapete poi dove finiscono?»
Piero fece di no con la testa.
«Dove?» chiese invece Daniela.
«In delle cassettine come quelle della frutta, però tutte chiuse, così non entra nemmeno un filo d’aria e non escono i vermi. Se non ci credete ve lo faccio dire dal guardiano del cimitero, è lì al bar. Forza, venite!»
Daniela si alzò subito e seguì quell’uomo dall’andatura bizzarra, con le giunture che parevano tenute insieme da uno spago. Piero non voleva andare, ma le sue gambe si mossero da sole, per un sortilegio che da un tempo per lui immemorabile lo teneva in balia degli sconosciuti.
Al tavolino li aspettavano due uomini che, tolta la magrezza, parevano la copia di quell’altro.
«Giovà, di’ a queste povere creature dove si mettono le ossa dei morti.»
«Ma sei scemo? Che gliene frega a loro?»
«Ah sì? Chiedigli che stavano facendo sotto all’olmo.»
«Che stavate facendo?»
Visto che i bambini tacevano, fu l’uomo-spago a spiegarglielo.
«Cose da pazzi!» esclamò Giovanni, fingendo indignazione. «Ma non lo sapete che per seppellire qualcuno là sotto ci vuole il permesso del sindaco? Nicò, gliela facciamo la multa a questi bambocci?»
«Gliela devo fare io?»
«Perché, non sei il sindaco, tu?»
«Ah, sì, sì… Solo che ho lasciato il blocchetto al Comune, dovrei andarlo a prendere. Bambolotti, intanto lo volete un goccio di birra?»
«Daniela!»
Era l’urlo furioso di sua madre che si avvicinava a passo svelto, tallonata dall’ombra lunga che il sole calante disegnava sull’asfalto. La donna prese Daniela per un polso e mancò poco che le tirasse uno schiaffone. Si contenne per non dare spettacolo davanti agli uomini, ma pronunciò tutte le parole sacrosante e inutili con cui le madri umiliano i bambini disubbidienti, mentre gli uomini cercavano di placarla con altre parole sacrosante e inutili. Daniela la lasciava sfogare sperando solo che non si accorgesse delle sue mani tagliuzzate e sporche, perché allora sì che avrebbe preso le botte di sicuro.
La donna se la portò via strattonandola e ordinò a Piero di seguirla, perché stava facendo buio e nemmeno lui poteva rimanere in strada da solo. Piero ubbidì, felice di sfuggire a quegli uomini cattivi, e si mise a camminare di fianco a Daniela, che piangeva a singhiozzi, per farle coraggio; ma a metà strada ebbe un sussulto, e senza una parola tornò indietro di corsa.
«Dove vai?» gli urlò dietro la donna. «Guarda che lo dico a tua madre!»
«Va a prendere lo zaino, l’ha dimenticato sotto l’albero» disse Daniela, asciugandosi le lacrime.
«Tu stai zitta, che stavolta le buschi!»
Daniela stette zitta ancora una volta, e mentre sua madre riprendeva a trascinarla verso casa pensò al suo principe azzurro, che era capace di ascoltarla per un giorno intero senza mai interromperla.
Intanto, quel vento che muoveva le nuvole era sceso sulla terra e si divertiva a rivoltare la polvere. Per andare avanti, Piero doveva scacciarla con la mano, strizzando gli occhi. Un paio di volte inciampò, e poco mancò che finisse con la testa contro un palo. Sembrava che una forza misteriosa gli sbarrasse la strada, ma il timore dei castighi di sua madre era una forza di rango superiore.
Quando arrivò all’olmo, lo zaino si era rovesciato e lo scheletro era fuori per metà, come se avesse lottato per fuggire. Sopra di lui le foglie frusciavano, qualcuna si staccava e cadeva lontano. Le orbite fluorescenti puntavano agli occhi mezzo accecati di Piero, ma cos’era quello sguardo? Un rimprovero, una minaccia, una supplica? Ci avrebbe pensato un’altra volta, non era quello il momento. Afferrò lo zaino e con un gesto rapido v’intrappolò lo scheletro. Fu allora che sentì una specie di ululato. Si girò e vide le ombre dei tre uomini seduti al bar. L’uomo-spago si era alzato e andava verso di lui, più traballante e più risoluto che mai, col vento che sembrava fischiargli fra le costole. Forse quello sguardo era un avvertimento?
«Ehi!»
Piero voleva correre a casa, ma il sortilegio, stavolta, gli teneva i piedi incollati alla terra.
«Che ci fai di nuovo qua?»
Le parole gli s’imbrogliarono in gola e non riuscì a tirarle fuori: c’erano abilità che doveva ancora sviluppare, in quella parte del corpo.
«La signora ti ha detto di tornare a casa, perché non hai ubbidito?»
Con uno sforzo terribile Piero riuscì a fare qualche passo nella direzione di casa, e per un attimo pensò che, di fronte a quell’uomo, Daniela era stata più coraggiosa di lui.
«Lo sai cosa succede ai bambini che non ubbidiscono ai grandi?»
Le gambe di Piero finalmente si sciolsero, e passo dopo passo presero velocità, aiutate dal vento che le spingeva.
«Lo sai?» gridò l’uomo. «Diventano come me!» urlò ancora, e se ne tornò con le mani in tasca e l’aria soddisfatta dagli amici che lo aspettavano borbottando sconcezze.
Piero si fermò soltanto quando passò accanto a un bidone dell’immondizia. Si voltò, e non vedendo avvicinarsi ombre umane, tirò fuori lo scheletro e provò a scoperchiare il bidone. Riuscì appena a schiuderlo, così decise di abbandonarlo lì per terra e riprese la corsa verso casa. Mentre correva si vergognò di aver mancato alla promessa del seppellimento, e quasi gli cedettero le gambe al pensiero che, prima o poi, lo scheletro gli sarebbe riapparso in sogno per chiedergliene conto.
Sempre più lontano alle sue spalle, ai piedi del bidone, quel cranio lucido e bianco era reclinato su un lato, sfiancato dallo strapazzo, le orbite che brillavano nel buio, come gli occhi dei gatti che già si avvicinavano in cerca di cibo. Uno di questi, più coraggioso o più spaventato degli altri, gli diede un paio di timide zampate per valutare il pericolo. Lo scheletro non reagì, e il gatto si sentì abbastanza tranquillo da dargli la schiena e infilarsi sotto il bidone, dove un torso di cavolo ancora fresco s’era acquattato invano.
Gianfranco Martana