Il racconto della domenica: Tesoro di Gianluca De Simone

 Il racconto della domenica: Tesoro di Gianluca De Simone

Illustrazione Luigi Bagolini

Dall’aspetto, mi è stato subito antipatico: un tipo slanciato, uno di quelli che mangiano più di tutti e non ingrassano mai. Pieno di capelli ricci, all’età nostra. Naso adunco, tratti affilati. Uno che può piacere alle donne, nonostante tutto. Ma non è certo perché io sono calvo e un po’ fuori forma che l’ho preso in antipatia, né sto qui a raccontarlo perché mia moglie mi ha lasciato. Non è questo. Il vero problema è il suo uso del termine tesoro. Lo rivolge come appellativo a chiunque, maschio e femmina, bambino e adulto, amico o conoscente. Non lo fa con gentilezza o ironia, lo fa in automatico, un’attività involontaria del muscolo del linguaggio. Lo fa specialmente quando è in disaccordo su quello che è stato appena detto, e molto spesso è in disaccordo. Allora inizia la frase con: «No, tesoro». Poi passa a esprimere la sua opinione. Per esempio: «No, tesoro. Per il lesso, la carne va messa in acqua bollente. Per il brodo, va messa in acqua fredda». In alternativa, inserisce tesoro alla fine della frase. Per esempio: «Se vuoi fare il brodo devi mettere la carne in acqua fredda, tesoro».”

 

A scanso di equivoci, Umberto non è gay. Non dice tesoro in quel modo. Lo dice a modo suo. Un paio d’anni fa ha iniziato una relazione con Laura, la migliore amica di mia moglie, ora ex-moglie, e questo ha fatto incrociare le nostre strade. Di norma, la mia è una strada poco frequentata, popolata da pochissimi amici testati dal tempo e dalla tolleranza ai reciproci disastri esistenziali. Amici cresciuti insieme, che hanno bisogno di poche parole per capirsi. Individui poco socievoli che, nella penosa volata verso i cinquanta, faticano sempre di più a entrare in sintonia con una nuova conoscenza. L’umanità appare sempre più aliena. Spesso, osservando il mondo circostante, mi ritrovo a citare tra me e me il titolo di un vecchio film: Essi vivono. Sì, essi vivono, sono tra noi, con i loro cellulari, le loro auto, i loro lavori, le loro opinioni. Le opinioni, soprattutto. Non è che un tempo le persone non coltivassero opinioni. Ma un qualche mutamento antropologico ha determinato una nuova legge naturale: la convinzione con cui viene espressa un’opinione è direttamente proporzionale all’ignoranza di chi la esprime. Solo oggi, mi sembra, si può avere la certezza che più un’opinione è espressa con convinzione, più essa si rivela una cazzata.

Quell’intreccio sentimentale tra me, la mia ex-moglie, la sua migliore amica e il suo nuovo compagno, doveva occasionare una cena fuori, con l’implicito incoraggiamento a diventare amici, io e Umberto. Ricordo che dopo le presentazioni ci siamo seduti a tavola e, in un tentativo di conversazione che ancora oggi ritengo encomiabile, gli ho chiesto: «Tu e Laura avete qualche programma per il fine settimana?». Lui ha arricciato le labbra come per pensarci e ha detto: «Scopiamo!». Poi ha riso, ritenendo la battuta spiritosa o audace o intelligente. Quando ride, tra l’altro, non è una vera risata. Fa una specie di risucchio col naso, a ripetizione, come per invogliare gli altri a ridere con lui. Io ho detto: «Ah».

Subito dopo, ho iniziato a notare questo fatto del tesoro. Ogni volta che lo diceva, sentivo un’unghia graffiare una piccola lavagna tra le mie orecchie. Non ho detto nulla, quella sera. Ma credo che il rapporto con mia moglie, che trovava Umberto simpaticissimo, abbia cominciato a incrinarsi proprio allora.

E poi anche il nome: Umberto. Non dice già tutto? Um-ber-to. Tutti gli Umberto, mi sembra, devono avere qualcosa in comune. O forse è lui, è questo Umberto in particolare che ha gettato un’ombra su tutti gli Umberto che ho conosciuto e che mai conoscerò.

A me non importa se quello che dice è giusto o sbagliato. Per me quel tesoro lo metterà dalla parte del torto per l’eternità, qualunque cosa dica. Però si dà il caso che mi piaccia cucinare. Sono un amante della cucina tradizionale, delle cotture lunghe, amo sperimentare con gli ingredienti. E il bollito è un piatto che cucino spesso. Ho molto tempo per le mie passioni da quando mi hanno licenziato. Uno spiacevole diverbio col caporedattore, ma quella è un’altra storia.

Allora, la questione dell’acqua fredda e dell’acqua calda nel brodo/bollito è una rispettabile tradizione tramandata da generazioni, secondo cui la carne immersa in acqua bollente verrebbe sigillata dall’alta temperatura, e questo la renderebbe migliore per il lesso. Invece, iniziando dall’acqua fredda, la carne rilascerebbe i suoi succhi e il brodo sarebbe più saporito. Questa teoria non ha alcuna base scientifica. Diversi studi (sì, esistono studi su questo genere di cose, e io li ho letti) hanno dimostrato che quando la carne ha bollito per tre o quattro ore non fa alcuna differenza se è stata immersa in acqua bollente o in acqua fredda. Come ci suggerisce anche l’intuito, quelle tre o quattro ore di cottura sfibrano completamente la carne allo stesso modo, sia partendo dall’acqua bollente che dall’acqua fredda. Sfido chiunque, soprattutto quelli che utilizzano il termine tesoro a sostegno della loro tesi, a riconoscere un lesso messo in acqua fredda da un lesso messo in acqua bollente.

Tutto questo è importante? No, non lo è. Non davvero. Generalmente non mi metterei a contraddire qualcuno che sostiene l’impostazione tradizionale del bollito. Anzi, la trovo una cosa simpatica. La tradizione tramandata dalle nonne, eccetera. Con un interlocutore intelligente potrei anche arrivare a concedere un qualche indefinibile fondo di verità a quella teoria. Ma c’è quel tesoro. Quel tesoro rende tutto diverso. E c’è anche quel risucchio col naso.

Così a una cena successiva (poiché si insisteva a ritrovarci a cena, in quel tentativo di stringere un’amicizia sempre meno plausibile), durante quell’ultima cena insieme, in uno di quei ristoranti polverosi, dalla cucina solida, con i vecchi camerieri in giacca bianca, la mia ex-moglie decide di raccontare che qualche giorno prima ho cucinato il bollito. Umberto chiede se l’ho fatto partendo dall’acqua bollente o dall’acqua fredda. Intuendo dalla sua espressione dove si andava a parare, io dico: «Fredda». Con un luccichio di trionfo negli occhi, Umberto mi guarda e dice: «Ma il lesso si fa in acqua bollente, tesoro».

Sulla mia piccola lavagna personale, quell’unghia raspa crudelmente, un’unghia trascurata, ricurva. Allora dico: «Umberto, tu non sai niente di cucina. Parli per sentito dire. L’ultima volta, a casa vostra, sei riuscito a cucinare gli spaghetti alle vongole più cattivi che io abbia mai mangiato, allo stesso tempo scotti, secchi e sciapi. Abbiamo detto che erano buonissimi, ricordi? Era una bugia, e lo sapevamo tutti. Non mi interessa spiegarti il perché o convincerti, è proprio che ogni volta che apri bocca spari una cazzata. Ormai sei un ometto, bisogna che te ne renda conto».

Era abbastanza. Forse tutto poteva ancora risolversi in una battuta ironica, un’osservazione spiritosa. Ma c’era ancora una cosa che voleva sgorgarmi da dentro.

«E poi,» ho detto «se mi chiami un’altra volta tesoro ti strappo gli occhi dal cranio e li metto nella scodella che hai davanti a quella tua faccia di merda».

Ripensando al putiferio che si è scatenato dopo, i bicchieri rotti, il tavolo ribaltato, i camerieri che ci spingono fuori dal locale, ripensandoci oggi, dopo tutto quello che è successo, mentre scrivo in questo vano sotterraneo dove sono finito a vivere in un momento di temporanea difficoltà, credo di aver fatto la cosa giusta. Penso che sarebbe finita allo stesso modo con mia moglie, anche se quella cena non fosse mai esistita. Il caporedattore mi avrebbe segnalato alla direzione in ogni caso, prima o poi. Tutto sarebbe andato allo stesso modo. Forse, a ripensarci, è stato un evento che ha accelerato il corso delle cose, portandole dove dovevano arrivare, al punto di crisi, solo più velocemente. Perché questo è un mondo pieno di Umberto, e nessuno ha più voglia di mettersi a discutere, tranne me.

Gianluca De Simone

Blam

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