Il racconto della domenica: Ritagli di Giovanna Cinieri

 Il racconto della domenica: Ritagli di Giovanna Cinieri

Illustrazione di Diana Milea

Quando siamo state bambine, io e te, c’erano meno macchine sulla strada ma andavano più veloci.

Per arrivare al mare dovevamo solo attraversarne un tratto asfaltato fra le ville e la sabbia. Era uno spazio enorme e sempre incendiato, poi tutt’intorno si aprivano le dune, e il sale si alzava e si mischiava alla polvere. Le bambine le vestivano bene, in quella zona. Ma io mi sedevo scomposta e a gambe aperte, le ginocchia piegate, sporche, la gonna tirata su come se fossi stata un maschietto, e tu eri un caschetto nero con uno strano carattere sotto. È colpa tua se pretendo di essere ascoltata in pieno buio, se in quel buio mi ci sdraio a picco. Quando siamo state bambine, i nostri corpi erano così piccini che giocando a nascondino abbiamo finito per non ritrovarci più.

Ciao Maddi.

Fammi sapere se t’hanno presa i vampiri o se ti ha tratta in salvo quel principe che inventammo un pomeriggio, uno a testa, quando ancora non sapevamo che dovesse servirgli un corpo, e pensavamo bastasse il volto per renderlo vero, così cercammo sui giornali tutti i ritagli con cui avrebbe potuto manifestarsi. Degli occhi, taglia due occhi Maddi. E un naso, e la bocca, i capelli, e ridevamo, ridevamo come pazze incollando sul foglio quel povero storpio, e più veniva brutto il volto del bel principe, più ridevamo, guarda il bel principe Maddi, e ridevo, quasi non mi riusciva di trattenere la pipì, stringevo, stringevo, e più stringevo più il principe era dovunque, dalla canotta sotto l’ombelico al petto bollente poco sopra, e sulla lingua, il principe era sulla lingua e fra i capelli, me li prendeva e me li tirava e io ridevo. Guarda che mostro il bel principe, Maddi, e tu ridevi buttandoti dentro me, volevi entrare, me lo avevi detto anche se non parlavi mai. Non dicevi mai una cazzo di parola, Maddi. Quella sera però avevi detto che i principi non esistono, e io ti avevo detto che neanche i padri, perché non ci avrebbero permesso di andare a giocare a nascondino con Giovanni.

Giovanni era così bello, ma ora non me lo ricordo più; non sapevo sarebbe diventato fumo azzurro e viola, lo guardavo come se dovesse vivere per sempre in quell’istante, e tu te ne stavi lì a sentirmi descriverlo prima che scomparisse. Io un fantasma, tu un fantasma, Campomarino si accendeva da giugno a settembre di vita sfinita, gente morente sul bagnasciuga; io col costume intero rosso e tu col due pezzi a righe; io un fantasma, tu un fantasma, e al centro del mare le meduse fluorescenti che si aprivano come sacchi di confetti invisibili; io una sposa, tu una sposa, mariti le alghe, i pesci, le conchiglie, i suoni ovattati della superficie. Io e te sul fondo, ma non ricordo la tua voce.

Neanche quella di Giovanni, che ci chiamava durante il nascondino. Non ricordo la faccia di tua madre, nella mia memoria, in quella casa al piano superiore c’eri solo tu, io salivo una scala curva e bianca e ci vedevamo.

Andiamo a caccia di criceti, ti dissi. Tu ne avevi perso da poco uno, e io ti avevo convinta che potevamo trovarne un altro fra le dune. Mentivo. In realtà volevo solo trovare Memole o un folletto simile. Non mi interessava davvero il tuo criceto. Mi ero preparata per uscire con te, lo facevamo ogni sera. Da sole tra le dune, il caldo come una coperta d’aria doppia, lo spazio deserto, io un fantasma, tu un fantasma, ricordo che alla fine di certi giorni raggiungevamo sempre una tenda. Lo facemmo anche quella sera, quando fu chiaro che lungo il sentiero non avremmo trovato nessun criceto. Giovanni come sempre aspettava, io alzavo le spalle e smettevo di rivolgermi a te. Tu scomparivi. La tenda sembrava di piombo e dentro ci andavano a morire le stelle. Anche noi. Io di certo ci morivo.

Aprivo le gambe e c’era l’estate che dominava dall’alto, l’estate infinita, tu mi guardavi e non dicevi mai una cazzo di parola, tranne che mi amavi. C’era un buio finto nella tenda, e subito fuori il cielo dappertutto, anche sotto terra. Era dolce il buio finto nella tenda, odorava di Galatine e crema nivea e poi un po’ sapeva anche di cose da ragazzo, un docciaschiuma alla menta e alito di sconosciuto, una vertigine. Sapevo che tu mi ascoltavi, in quel buio mi ci sdraiavo a picco, aprivo le gambe e Giovanni invocava Dio. Non sapevo neanche cosa fosse Dio, avevo solo capito che doveva essere qualcosa che abitava su di me, che entrava in me, che si faceva desiderare, tutti desideravano Dio, e Dio si faceva prendere solo se supplicavi, così anche Giovanni supplicava, implorava che io potessi mostrargli i miei occhi nascosti dietro le lenti trasparenti, togliti gli occhiali ti scongiuro, diceva; e chi non desidera guardare morire il tramonto in una preghiera? Giovanni mi prendeva la mano e se la posava sul cuore, senti come impazzisce, senti, insisteva porgendomi la bocca calda. Poi in quella bocca entravo. Tu non facevi niente. Quando tornavamo a casa io non avevo peso, e neanche tu, io un fantasma, tu un fantasma, nere di pelle e bianche di luna appena salita in cielo. Io immaginavo animali misteriosi lungo il bordo della strada, enormi cerbiatti a due teste seguirci, avere nelle palle degli occhi la stessa luce riflettente delle mie biglie, Campomarino di notte abitata da qualche suono lontano di ragazzi perduti, musica da un’autoradio e il rumore delle onde che ci fischiava nei timpani. Io un fantasma, tu un fantasma, piccoli boschetti di canne altissime ai nostri lati e la sabbia delle dune, che di notte era tiepida, ci faceva una carezza. Saliamo sul terrazzo, mi chiedevi. Una volta superato il cancello di casa, anziché proseguire verso gli appartamenti, salivamo tutte le scale, compresa quella di ferro battuto, e arrivavamo sul tetto. Lo facevamo spesso. In un angolo lasciavamo la coperta sopra cui poi andavamo a sdraiarci. Appena posavamo le teste sui mattoni del pavimento, il prodigio delle stelle dirompeva. Erano così tante che sembrava colassero giù, tu ne univi i punti e ci disegnavi criceti, poi con la coda dell’occhio mi chiedevi se davvero esistessero i folletti. Non lo so Maddi, fammi sapere se t’hanno presa i vampiri o se ti sei tratta in salvo. Mentre scendono interminabili tutte le stelle di questo tempo, ho preso alcuni giornali, ho ritagliato due occhi, e un naso, e la bocca, i capelli, ho incollato sul foglio il tuo volto, Maddi, non me lo ricordo più, sei scomparsa, sono scomparsa, io un fantasma, tu un fantasma, i suoni ovattati della superficie. Io e te sul fondo.

Giovanni Cinieri

Blam

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