Il racconto della domenica: Prime impressioni d’amore di Elisa Teneggi

 Il racconto della domenica: Prime impressioni d’amore di Elisa Teneggi

Illustrazione di Valentina Cascio (Valallart)

Le prime impressioni d’amore mi colsero impreparata. Mi trovarono nel mezzo della noia pomeridiana, al riposino postprandiale tra letti srotolati sul pavimento di un asilo nido, nel mezzo del processo di apprendimento di come fosse possibile, semplicemente, addormentarsi. Giunsero, immagino per caso, proprio sulle mie mani, sui polpastrelli che separavano quanto bastava il mio piccolo pube dal materassino puzzolente. Si presentarono curiose, spaesate; e proprio per questo, in qualche modo, mi furono gradite. Almeno, per quel paio d’ore, avrei avuto qualcosa da fare. Ma l’amore alla mia età, mi spiegarono, era sconveniente, e le maestre spione riportarono tutto a mia mamma e, in sostanza, bandirono l’amore dal nido, anche perché, diceva mamma, se avessi continuato così, in mezzo alle gambe mi sarebbe venuto un ginepraio, un fungo scarlatto, e alla visita dalla pediatra mi sarei beccata un blocco di ghiaccio da stringere tra le chiappe. Quindi più consono sbarrare gli occhi, tra i mocciosi che ronfavano, puntarli bene al soffitto e trattenere urla pianti lamenti per quell’ordine di sdraiarsi e tacere, sdraiarmi e farmela andare bene così, almeno per il momento. Almeno fino alle elementari: perché fu lì che le cose iniziarono a scombinarsi. I compiti a casa si rivelarono una scusa perfetta per chiudersi dietro una porta a concentrarsi memorizzare e intanto riprendere con il proprio amore da dove si era stati interrotti «Aspetta! Shhht! che cosa sono questi passi», mamma origliava oltremaniglia e puntualmente si precipitava a segnare le mie ricadute in quel passatempo semplice, ora ricordo, ancora non concesso, e a scuola veniva rincarato il castigo perché i pantaloni si portavano stretti al cavallo e di quei tessuti che fanno pizzicore, e nel mezzo di tutto questo che voglia di ricominciare a capirci qualcosa, di questa cosa che mi rende sola, che sa di amore che dura un battito di ciglia, che posso ripetere ore e ore, che mi fa sorridere, che paura tra i banchi di essere beccata a sfregarmi insieme le cosce – me lo si leggeva in faccia, quel desiderio d’amore? quel segreto d’amore? a catechismo probabilmente sì, perché tutte le frasi sembravano un attacco al mio amore, vile e sbagliato, che pulsava che grattava sottomutanda e per il quale, ero certa, sarei stata dannata. Ma in mezzo alla censura del mio amore, a casa, i fratelli più piccoli diventavano grandi e in una camera sola non ci si stava più. Per questo mi regalarono un rifugio, a dodici anni, quattro pareti una porta, ma era quanto bastava per creare un regno d’amore e mettermi comoda nella mia piccola routine.

Questo, almeno, finché la pubertà non mi mise in testa che l’amore avrebbe avuto capelli biondi, occhi azzurri e una chitarra in spalla. Mi convinsi che l’amore che conoscevo così tanto, così bene, fosse provvisorio, consolatorio. Perché il nuovo amore mi teneva per mano a prendere il gelato, a guardare i film sul divano, e fu con lui che imparai ad articolare il mio corpo nella forma di un bacio umido, eccesivo, impacciato. Con lui l’amore non era fatto di silenzio, ma del suono di milioni di squilli, delle chiamate clandestine delle paroline delle smancerie. L’amore si nascondeva nell’armadio per gabbare il genitore, pagava il fratello per andarsene a giocare in giardino così da potermi sdraiare sul letto, percorrermi il corpo, lasciarmi incrostazioni di saliva sulle labbra. Quell’amore mi aveva reso strana, appagata. Ma l’estate finì. A settembre, l’amore aveva traslocato su altre labbra. E io, buttata, sentivo che la mia vita poteva dirsi terminata.

 Almeno finché le prime impressioni d’amore non mi raggiunsero armate, e io adolescente, in case-vacanze, sotto portici cittadini, in parchi pubblici, piscine spruzzose. S’introdussero timide, mascherate. Uno sguardo al volo, una risata piazzata. M’imposero nuove priorità, perché l’amore cominciò a dirigere ogni pensiero, in classe fino al trillo dell’ultima campana, a tavola fino all’ultima forchettata di contorno, dopodiché uscire, volare, fuggire a raggiungere l’amore a sequestrarsi a svicolare di sotterfugi a baciare e baciare ancora, a prendersi a mollarsi a giurarsi in eterno, e ogni giorno l’amore si faceva di più, si faceva grande e forte e fu come rapide, dormivi e non passava, studiavi e non passava, correvi e non passava, e ogni secondo era una minuscola sfera d’amore che ribolliva girava nel sangue ed era sempre lì pronta a scoppiare, deflagrare, corrodere la terra di quel sentimento che intossicava, che giocava a pube contro pube senza mai spingersi oltre, perché dei cliché e delle cose dei grandi, con un amore così addosso, non te ne frega proprio nulla, perché quello parla, sanguina, s’infiltra, e ti sta tutto nella testa così che, dei corpi, ti dimentichi proprio, e quelle mani sotto la maglietta, le dita sull’elastico dei boxer, sono solo copioni mal recitati.

Prevedibilmente, questo amore si spense quando un corpo decise di attaccare l’altro. Perché amore e violenza parlarono improvvisamente la stessa lingua, fondendosi quando sentii la mia materia rompersi dall’interno per la penetrazione. Celebrai così la lacerazione del mio imene.

Dopo l’adolescenza, le prime impressioni d’amore furono urgenti e caotiche. Mi guidarono tra piazze e locali, mi alzarono e schiacciarono, mi resero dipendente dal loro mosto di violenza così come lo intendono le sigarette, a consumo coatto, perché l’amore durava sempre di meno e l’annichilimento sempre di più e l’unico modo per non pensarci era tornare all’amore, ricominciare dall’amore, e poi le notti da sola, una volta trasferitami da casa, facevano rivoltare la bile, quindi dai a buttar giù amore, dai che dai scendeva si assestava e quando era passata si ricominciava, si tornava a questo vizio che chiamavamo amore ma che giovava più a dimenticarsi di sé, più a punirsi per essersi lasciati sfuggire l’amore quello vero, e quindi via anche solo per uno shot in più, pillola estatica, via all’innamoramento veloce per sfamarsi, nutrirsi e non scomparire, e poi alla fine insomma, l’amore è una scommessa, e chi lo sapeva se questo sarebbe stato quello buono. Chi lo sapeva se, dopo la serata, di quell’amore sarebbe rimasto qualcosa, una volta lasciate le lenzuola stropicciate, una volta rimesso a posto il trucco lungo la strada di casa mentre attorno è pastoso di aspettative. Infine, tra un amore tascabile e uno per le stagioni, uno infuocato l’altro pensoso, uno a scintille l’altro analogico, qualcosa comparve. Qualcosa che interruppe la ricerca. Che tolse l’amore dal piedistallo. Furono le parole «tumore della cervice».

Le prime impressioni d’amore mi trovarono inerme, intenta a riscoprire quel corpo placido, abbattuto, all’uscita dalla sala operatoria. Mi raggiunsero nel mezzo di una visita per controllare la buona riuscita della mia isterectomia. Qualcuno mi stava dicendo che stavo bene. Ma non mi sentivo bene. Mi sentivo mutilata, priva di amore, priva del poter essere amata. In astinenza dall’amore. Sola, stordita dai postumi dell’operazione e dai fischi elettrici dei macchinari vicino al letto, considerai il bianco asettico delle pareti, così diverse dall’intonaco ben tirato della mia cameretta, dove tutto quell’amore era iniziato. Pensai a tornarci presto. A capirci davvero qualcosa, questa volta. Mossi vagamente le cosce una contro l’altra, giusto per distrarmi dal prendere sonno. Fu lì che ricomparvero. Le pulsazioni emersero timide, a saggiare il terreno dopo tutto quel tempo. Le salutai come vecchie amiche. Le accolsi con stupore e sollievo.

Quando fui dimessa, e senza rispettare i termini minimi di riposo, mi stesi a pancia bassa sul letto e, tra i conati di dolore, muovendo le labbra, cominciai a recitare la tabellina del nove. La mano si mosse da sola, e stavolta il materasso era soffice e confortevole, i gesti esperti e desiderati. Era vero amore.

Elisa Teneggi

Blam

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