Il racconto della domenica: Prima di uscire di Benedetta Faedi
«Non ci saltare sopra! Un giorno di questi ci cascherai dentro.» La voce di mia madre risuonò nel corridoio illuminato dal sole incerto di un mattino d’inverno. Mi chiusi alle spalle la porta del bagno e salii sopra il cesso come d’abitudine. I calzini di lana mi fecero quasi scivolare sulla tavoletta mentre aggiustavo la piega dei pantaloni di vigogna che cadevano larghi, morbidi e malinconici come quelli di Charlot. L’orlo me lo aveva fatto la sarta con un gessetto bianco rettangolare per marcare le misure e imbastire il primo filo. «I jeans sono solo per le buone stagioni» precisava mia madre, mentre io agognavo i pantaloni Naj-Oleari con le rane della mia vicina di banco. A casa non c’era uno specchio a figura intera. Davanti a quello del bagno riuscivo a guardarmi solo a metà: dalla testa fino al girovita mettendomi in punta di piedi, e da lì in giù arrampicandomi in equilibrio sul cesso.
Ripensai a questo rito della mia infanzia un giorno di molti anni dopo, quando mia nonna mi chiese curiosa se ero innamorata. Le risposi che non sapevo, che era complicato e che forse lo amavo a metà. «Ma con la metà di sopra o quella di sotto?» mi domandò divertita dai miei tormenti sentimentali giovanili.
Mi girai di schiena per infilare la canottiera di lana, capo indispensabile nel guardaroba di ogni bambina perbene, ammoniva mia madre che era cresciuta a Milano e il freddo se lo era portato dietro anche a Roma, da adulta. Poi spinsi la testa con decisione attraverso il collo del pullover sferruzzato da mia nonna nei lunghi pomeriggi d’inverno, intervallati dal rumore del traffico fuori e della pioggia che batteva contro i vetri. Saltai giù dal cesso e mi accostai al lavandino per sporgermi più vicino allo specchio. Così riuscivo a intravedere le maglie delle trecce che si snodavano sulle maniche e mi ricordavano le ore trascorse con mia nonna a cercare un modello da replicare, a comprare la lana, testare i campioni, prendere le misure delle mie braccia, polsi, spalle, torso e collo, e a provare e riprovare i progressi e gli errori dei singoli pezzi fino a cucirli insieme a lavoro finito. Mentre mi spazzolavo, lo specchio rifletteva la luce dei miei capelli che si elettrizzavano al contatto con la lana come in un fumetto, e si sovrapponevano alle mimose dipinte sulle piastrelle della parete alle mie spalle.
Superai il gradino che dava alla porta e, prima di uscire, mi appoggiai alla lavatrice per infilare i mocassini di pelle tirati a lustro. Mi sentivo un po’ ridicola con quelle scarpe che stridevano sui pavimenti di scuola e preannunciavano il mio arrivo agli altri come i campanacci delle mucche al pascolo. Una decina di anni dopo, fui colta dallo stupore quando vidi che il nuovo collega dall’aria cool, appena approdato a Londra nello studio legale dove lavoravo per scampare al servizio militare, sfoggiava quotidianamente una serie di mocassini con nappine di vari pellami e colori. Non mi sembravano più così brutti calzati da lui mentre tip tappava il parquet sotto il tavolo della sala riunioni, tutt’altro. Poi, l’ironia nella vendetta: mi raccontò che una notte, dopo un litigio inenarrabile, la sua compagna, una scandinava eterea e spigolosa con cui viveva in un loft all’ultimo piano di una vecchia fabbrica ristrutturata, gli tagliò furtivamente una nappina per ciascun mocassino che possedeva. Quando lui se ne accorse al risveglio, la cacciò di casa, e non la perdonò mai più.
Uscii dal bagno e mi imbattei in mia madre che mi aspettava dietro la porta per avvolgermi nel mio cappotto verde di Loden. Non lo potevo soffrire, con quel tessuto spesso che mi stancava le spalle e il pelo duro che mi pungeva il collo. Mi pareva di indossare una vestaglia scampanata, come una vecchia infreddolita che ci si riscalda alla fine del giorno. Però, malgrado tutto, quel cappotto comprato ai saldi in montagna d’estate mi ricordava altre cose belle: il campeggio dove trascorrevo le settimane di agosto; le giornate passate con altri bambini a rincorrersi in bicicletta e sbucciarsi le ginocchia; il pane caldo della mattina per colazione; la libertà urlata tra i sentieri in mezzo alle tende e le roulotte; il fiume di fango in piena quando pioveva; le famiglie straniere arrivate in macchina attraverso le Alpi; le passeggiate con i calzettoni al ginocchio e gli scarponi di camoscio a raccogliere i funghi, e il prato di ciclamini che segnava il confine tra la fine del campeggio e l’inizio dei boschi. Questi furono anche i ricordi che mi tornarono vivissimi il giorno in cui da adulta ritrovai, dentro un baule in soffitta, quel cappotto che odorava di canfora.
Mia madre mi aiutò ad abbottonarmi e mi baciò stretta e dolcissima come ogni mattina prima di uscire per andare a scuola. Il mio riflesso nei suoi occhi compiaciuti mi indispettì. Ma non avevo il coraggio di confessarle che non sopportavo i pantaloni di vigogna che mi scaldavano i polpacci, le canottiere di lana che si incollavano al sudore durante la ricreazione, i mocassini con le nappine che avevo solo io in tutta la scuola, i pullover fatti a mano che non erano mai di moda, e il cappotto di Loden verde che secondo me piaceva solo ai tirolesi. Questo non glielo dissi mai, perché ero la sua bambina perbene, dopotutto.
Un giorno di molti anni dopo, un mio datore di lavoro mi confidò che, al colloquio di assunzione, gli ero parsa una scolaretta uscita da un collegio svizzero, con la frangetta bionda che nascondeva le cicatrici d’infanzia e un golfino bianco lavorato ai ferri. Sorrisi. Non osai raccontargli che quel golfino veniva da lontano, che me lo ero portato dietro in ogni trasloco e aveva trovato posto in ogni armadio, che lo avevo messo durante gli esami, le analisi mediche, le partenze e gli arrivi, le visite al cimitero, e tutte le volte in cui indossarlo mi faceva sentire a casa o mi pareva l’unico modo di poter controllare le cose. Non gli dissi che quel golfino, in fondo, lo avevo amato, senza saperlo, perché nel tempo era diventato anche di moda; e soprattutto perché nel viaggio mi aveva ricordato un po’ di quella che ero dentro a un riflesso, e le mani venate di mia nonna che lo sferruzzava con lo stesso zelo e avidità con cui puliva il pesce di paranza prima di friggerlo.
Benedetta Faedi