Il racconto della domenica: Paola di Carlo Maria Vadim
Mi ha chiamato dopo sette anni. La stessa voce familiare, lo stesso tono leggero, confidenziale. Mi ha invitato per sabato a cena, nella sua casa sulla collina, dove so che è andata ad abitare dopo che si è sposata, anche se non ci sono mai stato. Abbiamo scambiato poche parole. Le ho detto: «Va bene Paola, ti porto un mazzo di fiori». Ha risposto con un tono dolente: «Ti prego non farlo… Ci sarà un po’ di gente. Vieni solo».
Ora cammino lungo il viale alberato che porta fuori città, verso la collina. Vado a passo lento. Ha detto alle nove e non voglio arrivare prima. Mi tornano alla mente gli anni della sua compagnia, le sere d’estate come questa che stavamo al Caffè nella piazza, con altri, e c’era sempre qualcosa di urgente da discutere, così ci sembrava allora. Si stava fino a tardi, pian piano la piazza si svuotava e scendeva il silenzio, e poi, verso le due, il Caffè ritirava i tavolini e spegneva il locale. E per non rientrare c’era chi parlava delle stelle e della luna e altri che prendevano a discutere di filosofia ma ridevano anche, mentre ancora per un po’ si andava in giro attorno alla piazza e sotto i portici. Paola parlava poco allora, e io meno di lei. Però ci guardavamo in un certo modo e tra noi c’era come un’intesa, mai dichiarata ma solo immaginata: io e lei avremmo potuto amarci… ma più in là nel tempo, quando non sapevamo. Poi lei aveva preso a lavorare da un notaio e tutta la settimana non la vedevamo. Anch’io, con mia sorpresa, ero entrato in Fiat pur con la laurea in sociologia. Stavo in un ufficio particolare (strategie di marketing… si pensava molto e si faceva poco) qui in centro, con altri quattro tutti più grandi di me, ma con la testa da ragazzini (così mi sembrava), e un po’ mi divertivo e un po’ mi annoiavo. Al Caffè in piazza ci stavamo nel fine settimana, sempre gli stessi, ma cominciavamo a sentire che la vita di tutti noi stava svoltando. Ora dopo la chiusura del Caffè sparivano tutti e io mi accompagnavo con Federico: passeggiavamo ancora per un po’ sotto i portici deserti e lui mi chiedeva sempre cosa aspettavamo io e Paola per metterci insieme. Non sapevo cosa rispondergli, perché per la verità la sua domanda me la ponevo io stesso. Con Paola continuavamo a guardarci in quel modo, anche quando si parlava tutti insieme e si sedeva ai tavolini per tutta la sera. Tra una risata e l’altra, tra un dire e l’altro c’era sempre un momento di sguardi fuggevoli che ci legava. I nostri occhi in quell’istante si dicevano: “io e te siamo l’uno dell’altro”, questo mi sembrava. Ma le cose restavano così. Poi, a partire da un certo giorno, di Paola nessuno sapeva più niente e lei non scendeva più ai tavolini del Caffè. Tutti facevano congetture, e io non riuscivo a star seduto dieci minuti che mi prendeva un’impazienza che mi faceva andare in giro per il quartiere, senza una meta. E ogni volta dovevo inventarmi le scuse per sparire, irrequieto, per poi tornare e poco dopo rialzarmi a camminare per le strade lì attorno. Solo Federico aveva capito cosa mi succedeva e quando a fine serata mi accompagnavo con lui per l’ultimo giro mi diceva: «Bruno, non puoi continuar così… valla a cercare se no la perdi». Invece non mi decidevo e preferivo aspettare. Finché una sera di fine ottobre, là ai soliti tavolini all’aperto (ma faceva già freddo e non si stava più bene), Federico era arrivato con la notizia sulla bocca: Paola si sposa col notaio. Dopo quella sera i ricordi mi si confondono. Mi vedo solo, in mezzo alla nebbia, e a distanza di giorni e giorni sento la voce di Federico e quella di tanti altri che scendevano al Caffè, che parlano con frasi spezzate e a me arriva come un’eco: “…hanno detto che lui ha quarantacinque anni… ma come fa a sposare uno che ha vent’anni più di lei…”, “…sembra che sia ricco e che abbia la villa in collina…”, “…li hanno visti al Ristorante Del Cambio, lei molto sofisticata, in tubino nero e tacchi a spillo, e lui in abito frusciante di lana blu e il sigaro in bocca…”, “…lo studio all’angolo del Corso ha dodici finestre sempre illuminate e quando scendono c’è il Mercedes nero, lucido come una conchiglia…”
Poi l’oblio per sette anni fino a stasera.
Il viale prende a salire e un po’ si restringe. C’è qualche auto che viene giù mentre sul marciapiede ci sono solo io. Da una traversa sbuca un giovane elegante che quasi mi urta. Si scusa e io gli dico: «Buona sera», lui, senza guardarmi, risponde: «Buona sera» e accelera il passo salendo verso le ville. Poco oltre, il viale svolta sulla destra e quando allungo lo sguardo vedo che il giovane passeggia davanti al cancello di una villa, e fuma. Quando lo raggiungo gli chiedo se per caso sa dove si trova la villa del notaio Gabel e lui mi risponde: «È questa davanti a noi…vado anch’io da Paola e Guidalberto». Decido di aspettare qualche minuto e mi guardo attorno. C’è molto verde e silenzio, provo a immaginare Paola dopo tutti questi anni. Chissà se il suo sguardo è sempre così morbido come allora, e se il suo modo di piegare il busto nel momento della risata è sempre lo stesso. Il giovane suona al citofono. Una voce femminile chiede: «Chi è?», lui risponde: «Sono Giacomo, Giacomo Bosetti… c’è anche un altro signore… aspetti che chiedo il suo nome…» e mi si rivolge. Gli dico: «Bruno Vivanet», e sento che quella del citofono dice: «Sì, sì, accomodatevi», e segue lo scatto della serratura del cancello. Camminiamo lungo il vialetto contornato di cipressi e rischiarato da bassi lampioni, saranno quaranta metri in leggera salita. Il giovane si muove come fosse di casa perché prende sulla sinistra e sale su una scala esterna che porta sulla terrazza del primo piano dove si sentono altre persone chiacchierare. Io vado incontro a una domestica che mi fa entrare nell’atrio e mi dice di aspettare un attimo. Non ho il tempo di guardarmi attorno che compare Paola in tailleur pantalone bianco, molto chic. Non è cambiata, penso subito. Le sfioro le guance e risento per un attimo il profumo della sua pelle. Così da vicino noto qualche piccola ruga attorno agli occhi, ma nulla di sgradevole. Adesso il labbro superiore si grinzisce mentre parla aggiungendo all’espressione un non so che di tenero. Restiamo a parlare per un po’ accavallando risposte e domande. Abbiamo sempre parlato poco io e lei, ma forse in questi sette anni di lontananza si sono accumulati troppi perché reciproci che stasera emergono prepotenti. A un certo punto di sopra, sulla terrazza, si sentono voci e Paola mi dice che la cercano e che dobbiamo salire anche noi. Ci sono sette o otto persone che quando arriviamo festeggiano Paola e chiedono di suo marito. Stringo la mano a tutti, compreso il giovane Giacomo, che ora ha per me un timido sorriso. A qualche metro da noi un tavolo quadrato è apparecchiato per dodici. Sulla tovaglia bianca, al centro, un gran vaso in cristallo è carico di fiori freschi e smaglianti. Un attimo dopo compare lui, il marito di Paola. È alto, magro, assorto. Mi stringe la mano un po’ sbadatamente e si accosta alla balaustra per parlare sottovoce con un signore elegante, forse un suo collega, che lo ascolta avvicinando l’orecchio alla sua bocca quasi si trattasse di una confessione. Paola m’invita a sedere nelle poltroncine di vimini disposte in cerchio nell’angolo della terrazza. Una donna col grembiule serve un prosecco ghiacciato. Mi ritrovo tra due signore e una di queste mi dice: «Lei è Bruno, vero?… Sì, Paola mi ha parlato di lei prima che arrivasse. Mi ha detto che siete stati amici per tanti anni ma che poi vi siete persi di vista… Mi ha anche detto che ha molta stima di lei…». Le sorrido. La cena è ricca, c’è anche l’insalata di aragosta. Tutti parlano, io perlopiù osservo Paola che siede quasi di fronte a me. Lei ogni tanto mi guarda e ritrovo in quello sguardo le sere lontane nel Caffè della piazza, lo stesso attimo d’intesa, la stessa promessa per un futuro insieme. Alla fine, ci spostiamo nuovamente sulle poltrone dove c’è meno luce e dove i moscerini, pochi per la verità, non dovrebbero disturbarci. Mi ritrovo al fianco del signore che per tutta la cena ha confabulato col marito di Paola, un certo dottor Trampetti. Mi offre una sigaretta e mi chiede da quanto tempo conosco i coniugi Gabel e di cosa mi occupo nella vita. Gli spiego che sono un vecchio amico di Paola sin dai tempi del liceo e che il marito l’ho conosciuto solo stasera. Mentre parlo di quello che faccio in Fiat, arriva il giovane che ho incontrato sulla strada per salire alla villa che, rivolgendosi a tutti, fa sapere che Paola si è ritirata in casa perché sta poco bene, forse un po’ di freddo o chissà… Ci alziamo tutti dalle poltrone per lasciare la terrazza e sostare nell’atrio sopra la scalinata che porta di sotto. Un minuto dopo si apre la porta delle stanze e ricompare Paola col marito al suo fianco. È pallida, ha un grande foulard di lana leggera che le avvolge le spalle e rassicura tutti che sta bene, che è stato solo un momento così… un brivido di freddo e basta. Ci chiede di scendere di sotto, staremo nella sala, magari spalancando le due grandi finestre che danno sul giardino. Mentre scendiamo le scale sto un po’ indietro e Paola mi si affianca, mi prende il braccio e mi sussurra: «Stai vicino a Giacomo. Ne ha bisogno». Nella sala mi guardo attorno ma non vedo il giovane. Qualcuno accende la radio e le note di un’orchestra si spandono leggere nell’aria. Il marito di Paola esclama: «Oh, ma che bello… questo è Duke Ellington… che meraviglia…». Esco in giardino e mi inoltro lungo un vialetto, le luci della villa penetrano il sentiero e lo rischiarano. Attorno alla fontana dove un po’ d’acqua scroscia leggera noto la sagoma del giovane. Lo raggiungo, lui mi offre una sigaretta e, nel momento che fa scoccare l’accendino, vedo che i suoi occhi hanno pianto anche se ora è assorto e silenzioso. La musica della radio arriva lontana assieme alle voci degli ospiti e a qualche breve risata. «Paola mi ha chiesto di starti vicino. La conosci da tanto?» gli chiedo. Continua a fumare e sembra non rispondere. Poi dopo un lungo silenzio si decide: «È stata la mia insegnante di filosofia lo scorso anno, alla maturità». Lo guardo e aspetto che concluda. Riprende a fumare e alla fine aggiunge: «Ogni tanto m’invita a serate come questa, ma sono stufo. Penso che me ne andrò lontano e stasera gliel’ho detto». Gli chiedo: «E le lacrime?» Nella poca luce intravvedo un leggero sorriso e poi le sue parole un po’ tremolanti: «Lei stasera mi ha incoraggiato, “non puoi compromettere la tua vita per me, fai bene a partire”, mi ha detto. E allora ho pianto». Gli dico: «Capisco…», e un attimo dopo aggiungo: «Rientriamo?» Nella sala tutti chiacchierano a bassa voce, alla radio qualcuno (forse è il grande Di Stefano) canta Tu che m’hai preso il cuor. Paola è seduta tra due signore e, quando io e Giacomo entriamo, si alza e ci fa accomodare nei divani in mezzo agli altri ospiti. Nel momento di sistemarci mi sfiora e in un soffio mi dice: «Grazie Bruno». Si riaccomoda tra le due signore e riprende a parlare con loro. Ogni tanto rivolge lo sguardo verso il giovane, che fa il broncio come un ragazzino e che le siede quasi di fronte ma a una certa distanza. Sono lunghi sguardi, gli stessi che io e lei ci scambiavamo tanti anni prima, quando sostavamo nei tavolini di quel Caffè nella piazza. Dopo un ultimo giro di prosecco la serata si conclude. Tutti si alzano e si salutano. Usciamo nel giardino e ci avviamo verso il cancello. Gli altri salgono nelle auto mentre io e il giovane ci accingiamo a riscendere lungo il viale. Paola è accostata al marito che le cinge la vita con un braccio. Ci saluta con la mano alzata sino a quando il viale svolta sulla sinistra e scompariamo alla sua vista. Giacomo cammina tenendosi venti centimetri avanti a me e tace. Quando arriviamo all’incrocio dove ci siamo incontrati qualche ora prima a sorpresa mi dice: «Ho capito che anche lei è uno spasimante di Paola». Gli rispondo: «Lo sono stato… ma poi le cose sono andate diversamente». Ci salutiamo. E mentre il giovane ha già imboccato la sua strada mi giro e gli grido: «In bocca al lupo». Lui non risponde e allunga il passo. Io ripenso a Paola e mi chiedo perché abbia voluto invitarmi alla cena di stasera. L’unica risposta che riesco a darmi sta nel suo rapporto con il giovane Giacomo: verso di lui, stasera, gli stessi sguardi promettenti che scambiava con me tanti anni fa. Come a dimostrarmi che lei è così, da sempre: dolce, comprensiva, vicina ma irraggiungibile e anche ermetica e misteriosa.
Ridiscendo lungo il viale e penso che non la rivedrò mai più.
Carlo Maria Vadim