Il racconto della domenica: Odio profondo di Giuseppe Fiore
Era una cosa incredibile quel De Nicolao.
Alto, sempre pronto a tirare fuori un sigaro, fumare e perdere saliva dai lati della bocca. Il tutto sparando cretinate filosofiche da vecchio saggio.
Io lo odiavo. Non era una roba superficiale ma, come mia nonna l’avrebbe definito, era viscerale. Per lei, l’invidia della vicina, Anna, che moriva di gelosia per ogni minimo successo dei figli degli altri, era viscerale. Oppure la costante voglia di cibo di mio nonno, nonostante il diabete, era viscerale. Insomma qualcosa che non può essere fermata in nessun modo, più forte del proprio autocontrollo.
L’odio verso quel maledetto di De Nicolao era così.
Non fatevi strane idee, non sono io quello in errore solo perché ammetto di odiare qualcuno. L’odio, alla fine, non è così negativo come lo descrivono.
Quello mi ricambiava di brutto. Per essere precisi, lui aveva iniziato, il mio odio era di rimbalzo, di riflesso specchio.
L’anno prima, quando ero passato dal secondo al terzo liceo, il professore De Nicolao era entrato in classe, aveva fatto il primo appello, aveva pronunciato il mio nome, mi aveva fissato e aveva sancito l’inizio della guerra. Così, senza un senso ben preciso, non stavo facendo casino o scrivendo sui banchi. Quel vecchio diavolo mi aveva guardato e aveva deciso di farmi uscire pazzo. Voleva rendermi la vita un inferno.
Era il mio professore di latino. Io ero un cane sia nel tradurre sia nell’impegno generale. Nulla, proprio non riuscivo a perdere la testa tra appunti e libri per troppo tempo. Finiva che mi veniva mal di testa e la giornata era da buttare. Però, non meritavo di essere torturato in quel modo da nessuno, neanche da quel professore fumatore di sigari puzzolenti.
La prima volta che mi aveva interrogato era finita male, in tragedia. Se fosse durata solo cinque minuti in più, sarebbe sfociata in una risata generale da parte dei miei compagni. Sarebbe potuto sembrare che io e il professore ci fossimo messi d’accordo per creare quel piccolo sketch prima di entrare in classe. Ma non era così.
Quello iniziò a fare delle domande assurde, anche per Giulia, che di latino ne sapeva. Ovviamente finì con una scena muta e un tre, primo di un lungo massacro.
Quel giorno diventò tutto chiaro: quello voleva la guerra, e io non mi sarei tirato indietro per nulla al mondo. Allora durante le sue ore producevo un leggero ronzio, non facevo muovere le labbra, non era forte, solo costante. Lui si imbestialiva, si girava, cercava di capire la fonte del rumore, malediceva la tecnologia e tutte quelle maledette antenne in giro per la città. Io me la ridevo di brutto.
Era così il professore De Nicolao: uno di quelli che, anche con un rumore minimo, perde il filo e deve ricominciare tutto dall’inizio. Bastardo, pensavo, non ti farò spiegare più nulla.
Per il primo mese funzionò tutto in modo perfetto.
Poi iniziò a sospettare qualcosa, mi fissava tutto il tempo, io rimanevo zitto e il ronzio spariva. Allora capì, e la guerra prese il totale controllo del nostro rapporto.
Il fatto è che, se sei uno studente, non hai troppe possibilità di vittoria. Persa la giocata del ronzio, si faceva dura per me.
Quello, invece, durante i compiti fissava solo me, gli altri facevano i fatti loro, telefoni e fogli volanti. Io fermo e muto, impegnato nel far fare guerra a popoli alleati o nel creare viaggi mai fatti da nessuno, nemmeno da Ulisse, che di avventure ne visse, sembra.
Così, in latino non si sfuggiva: il primo anno presi tre in pagella e riuscii a salvarmi con un solo debito.
Avrei anche potuto provare a studiare, per davvero, imparare le regole e iniziare a finire sul serio le versioni, senza nessun aiuto, ma ero troppo accecato dall’odio per dargli soddisfazione.
Non aprivo proprio il libro di latino, non sarei caduto nella sua stupida trappola. Quello, se vede che ti metti sotto con lo studio, crederà di aver vinto, pensavo. Continuerò a prendere tre e quello capirà di che materia sono fatto, pensavo.
Fu un massacro. Mi guardava sempre, fisso, mi faceva capire quanto fosse potente; quanto, dietro quella scrivania, fosse intoccabile.
Per non parlare di mia madre, malata di voti. Mi costringeva a stare sui libri tutto il pomeriggio, io le dicevo che non aveva senso, che quel maledetto di De Nicolao mi odiava, ma lei nulla, non ci credeva. Si sedeva davanti a me e lasciava che il tempo mangiasse i nostri pomeriggi, nel nulla, tra sbadigli e parole non tradotte.
Quel maledetto di De Nicolao, queste cose, le progettava di notte. Quello, il pomeriggio, si preparava i popcorn e si sistemava nel palazzo di fronte al mio, per guardare, dalla finestra, me e mia madre impegnati in quella scena becera, di cui lui si sentiva regista e sceneggiatore.
Ogni sera sentivo il mio odio aumentare.
Ero arrivato a picchiare i libri di latino per la rabbia. Io, quel maledetto, lo dovevo fregare. Dovevo dimostrare che mi aveva preso di mira, che mi odiava. Dovevo riuscire a copiare da Giulia la versione del compito, sarebbe stato perfetto. Non avrebbe potuto mettermi tre, sarei finito con un buon voto, senza aver dovuto aprire libri o fare nulla. L’avrei fregato di brutto, quel vecchio fumatore.
Presi una vecchia penna, una di quella che si apre in due, e la lavorai per bene. Con un coltellino svuotai internamente la parte di sopra e feci un piccolo taglio, abbastanza largo per un foglietto.
Lasciai la penna a Luca, un compagno fidato. Il piano era facile.
Luca avrebbe copiato da Giulia, tanto loro non erano animali in gabbia. Avrebbe trascritto la versione su un foglietto, avrebbe messo il bigliettino nella parte di sopra della penna, facendone uscire un’estremità dal taglio che avevo inciso. A quel punto, io avrei fatto cadere una matita e lui la penna speciale in modo da scambiarci i due attrezzi. Io avrei ficcato la speciale nel dizionario, lasciando fuori la parte con il bigliettino, così da sfilarlo poco alla volta. Era un piano perfetto, De Nicolao avrebbe visto la penna nel dizionario come un modo per tenere un segno. Io avrei copiato la versione.
Filò tutto liscio, come da progetto. Eravamo una coppia perfetta, soprattutto nella parte dello scambio, giocato su un equilibrio di velocità e sincronia. Mi sentivo un Dio.
Quello mi aveva fissato per tutte e due le ore, non poteva immaginare che io avessi copiato tutto. Maledetto vecchio, lo dicevo che non mi avrebbe fregato.
Per una settimana, durante le spiegazioni, lo fissavo senza ritegno. Aveva perso e doveva subirne le conseguenze.
Poi mi ripresentò il compito con un bel tre, colorato di rosso.
Io, rabbioso, senza nemmeno rivolgere parola a quel maledetto, andai in presidenza e spiegai la situazione. Dissi che quel vecchio mi voleva solo male, che il mio compito era fatto bene, non c’erano grossi errori e che quel tre nasceva solo dall’odio che il professore covava verso di me, senza alcun buon motivo.
Il preside, tipo ambiguo da sempre, fece chiamare il diavolo. Quello gli disse che avevo copiato. Io risposi che non aveva nessuna prova, che mi aveva fissato durante le due ore.
Il preside chiese al vecchio di farmi qualche domanda sulla versione, per capire se le cose le sapevo davvero.
Il maledetto non aspettava altro.
Scena muta. Battaglia persa, con l’amara sensazione di aver davvero creduto di poter essere vicino a una divinità. Il tre confermato. Nota per aver copiato. Mazzate da mia madre per tutta la storia.
L’odio verso quel maledetto vecchio aumentò con il doppio della potenza. Quasi risplendevo per il tanto odio che girava nel mio corpo.
Era troppo potente dietro quella maledetta cattedra ma, perché c’è sempre un ma, prima o poi i ruoli sarebbero cambiati. Io non sarei più stato uno studente e lui un professore.
Iniziai a fare silenzio e ad aspettare quel maledetto giorno.
Giuseppe Fiore