Il racconto della domenica: Niente di che di Federica Di Gloria

 Il racconto della domenica: Niente di che di Federica Di Gloria

Illustrazione di Angelo Carmisciano

«In fondo non è niente di che». Aveva detto proprio così: niente di che. Senza guardarmi, aveva scelto un’arancia dal cestino e aveva preso a tastarla con le dita, con quel modo arrogante che ogni tanto ha di toccare le cose, come fosse il solo a maneggiarle come si deve, a riconoscerne la qualità e a poterla esibire. Anche per questo avevo spento la luce. Non mi piace guardare Michele quando tocca la roba in quel modo, quando sbuccia l’arancia senza coltello, ficcando le unghie nella buccia e tirandola via a brandelli. Di lui mi piace il passo sicuro, la guida svelta, il vezzo di accarezzarsi la nuca quando è al telefono. Soprattutto mi piace il suo addormentarsi veloce, pratico, senza rumore. Non potrei vivere con un uomo insonne, o che russa, non potrei cucinarci insieme, fare gite, comprare divani o bottiglie di vino, io posso vivere solo con uomini incapaci di assistere al mio sonno, di sopravvivergli. Michele non russa e non è insonne, ma sbuccia le arance con le dita, ha gesti di campagna che gli stanno male addosso e che gli perdono ogni volta guardando fuori o abbassando le luci. Niente di che, aveva detto. «E poi scusa, il primo passo l’ha fatto lei, perché rifiutare?»

Anche le mie ragioni gli devono essere sembrate niente di che se è riuscito a trascinarmi fin qui, su questo pianerottolo cimiteriale che puzza di aglio. Abbiamo perso dieci minuti sul marciapiede, fissando il citofono di mia sorella alla ricerca di un cognome che non c’era e adesso eccoci a contemplare la grande porta di legno scuro, i pomelli d’ottone, la targhetta da notaio. Chiudo gli occhi su questo pavimento tirato a lucido e puzzolente, provo a contare nella mia mente le settimane, i mesi, gli anni in cui io e mia sorella siamo rimaste lontane, ostinatamente estranee l’una all’altra, ma non sono neanche a metà quando la porta si apre e ci investe una luce bianchissima contro cui si staglia la sagoma di mio cognato Dario.

Me lo ricordavo più alto, ma l’inganno dura niente: le spalle scivolate, il collo lungo, l’attaccatura dei capelli, tutto in lui torna a essere giusto, come al primo sguardo di quindici anni fa, e come sempre. Preferirei dover fare uno sforzo, magari dubitare davanti a una pancia prominente o a un cranio pelato. Invece il mio corpo riconosce ogni centimetro del suo e sembra volermelo dire a tutti i costi con la tensione dolorosa ai polpacci e un crampo feroce che morde e fa sudare.

Michele allunga una mano e pronuncia il suo nome e io cerco di prendere fiato un momento nella sua ombra, qui sul pianerottolo, ma Michele non se ne accorge perché Michele fa sempre così, fa esattamente quello che ci si aspetterebbe in ogni circostanza: le presentazioni cordiali, ineccepibili, poi una falcata da giraffa oltre lo zerbino ed è già dall’altra parte, e io invece resto da quest’altra, a spostare il peso sulle anche e a esitare sul confine, come una malata di Parkinson o una sopravvissuta.

«Ciao, Marina» dice Dario sporgendosi oltre la porta, e mi abbraccia tenendomi le spalle, come volesse schiodarmi da lì, lasciando la mia mano tesa a galleggiare nell’aria e poi ad accartocciarsi contro la sua camicia. Dopo, a lungo, resta la pressione dei pollici sotto le mie clavicole, come impronta nella plastilina. «Prego, accomodatevi» aggiunge impeccabile, raccogliendo il mio vino infiocchettato con disinvoltura da manuale. «Che bravi, lo apriamo subito.» E intanto Michele è già avanti – sempre troppo avanti – lo vedo allungare il braccio e stringere un’altra mano, la mano inanellata di mia sorella che sporge oltre uno spigolo, seguita dal polso, dall’avambraccio nudo, dalla spalla fasciata di pizzo nero. E alla fine ecco che appare tutta intera, mia sorella, una sorella troppo bionda e troppo elegante e troppo alta, e di colpo mi fa venire in mente mia madre, ma tu pensa, la nostra madre giovane che organizzava cene natalizie e si truccava sotto il nostro sguardo acerbo e impaziente. La padrona di casa mai troppo elegante, bambine, ricordate, ché non sta bene per le altre signore.

A questo penso adesso: a una madre senza tacchi che versa champagne agli invitati, e penso ai miei stivaletti bassi e orrendi che non ricordo più perché ho comprato, mentre mia sorella si avvicina e i suoi tacchi producono piccole esplosioni sul parquet di rovere troppo lucido. Forse è per questo, penso, è per tutta questa dinamite che ha la faccia così rossa e così alta davanti a me, deve addirittura chinarsi per baciarmi sulle guance, e immagino si bagnerà di sicuro di tutto il sudore che sto sudando. Mia sorella si ritrae sorridente e apre la bocca per dire qualcosa che non riesco a sentire. Dario armeggia con il tappo e io sento ormai il peso di ogni singola goccia di sudore sulla mia fronte, sento il peso e la consistenza e l’umidità di tutto il sudore che mi inzuppa. L’idea di raggiungere Michele in fondo al soggiorno mi appare come un salvagente ma proprio mentre mi muovo verso di lui la stanza comincia a ondeggiare e una mensola bianca davanti a me sembra voglia staccarsi dalla parete, una mensola così bianca che sembra illuminata dall’interno, e si avvicina talmente tanto che non posso fare a meno di notare quanto sia piena di oggetti, e di fotografie incorniciate, e mi dico che devo proprio scansarla questa mensola inopportuna che minaccia di franarmi addosso, e invece è proprio lei che vuol cadere, mi pare determinata a sbarrarmi la strada, e alla fine mi travolge proprio, questa mensola, con tutte le sue foto di organza, di veli e di bouquet. Le foto assurde in cui mia sorella tiene per mano il mio fidanzato, e guarda negli occhi il mio fidanzato, e abbraccia e bacia e sposa il mio fidanzato.

Di colpo mi sembra di essere solo sudore, solo acqua sudata, mi sembra di gocciolare ovunque e di allagare il parquet e il soggiorno bianco con le tende bianche e le candele bianche, e forse anche la cucina bianca, allagherò di sicuro l’intera casa, ogni angolo di questa sala operatoria camuffata, bagnerò tutte le foto una a una e tutte quelle immagini di una vita non mia si squaglieranno tra i nostri piedi, tra le doghe flottanti del parquet, si scioglierà tutto in sudore. Probabilmente sta già succedendo perché non sento più il pavimento, e allora mi dico che, chissà, magari l’avrà fatto apposta, mia sorella. Una cosa del tipo Mai più ombre tra di noi. La gente le pensa, queste cose. Ci crede. Ma la verità è che con tutta questa luce non c’è scampo, non c’è sudore che tenga e non c’è macchia che regga: lo sporco torna a galla come torna a galla il sangue anche quando lo hai lavato mille volte e ti ci sei scorticato la pelle, perché quello torna sempre, il sangue, e il tradimento è così, no?, come lo sporco e come il sangue, e con tutto questo bianco non c’è verso.

Quindi ora Mi dispiace Michele, Ma non si può, con tutto questo bianco non si può neanche fare finta, Non mi sento molto bene, torno a casa, Ci fosse stata almeno un po’ d’ombra, Ma tu resta, Michele, non è niente, Solo troppa luce, e troppo caldo e troppo bianco, così bianco che quasi mi acceca mentre torno all’ingresso e mi aggrappo alla maniglia, Scusate davvero, passerà, non è niente.

Mi richiudo la porta alle spalle e respiro. E il respiro mi viene su così potente che lo vomito, vomito per bene respiro e sudore, lo vomito a bocca spalancata sul marmo di questo pianerottolo lucido e puzzolente, vomito sotto la targhetta da notaio e i pomelli d’ottone, vomito sui gradini delle scale, sullo zerbino dell’androne, sul marciapiede davanti ai citofoni senza nome. Poi di colpo smetto. E senza più una goccia di sudore me ne vado.

Sì, dopotutto aveva ragione Michele, e se mai mi rifarò viva, glielo dirò. Non era niente. Proprio niente di che.

Federica Di Gloria

 

Blam

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *