Il racconto della domenica: La strada chiusa di Giovanna Ruffatto

 Il racconto della domenica: La strada chiusa di Giovanna Ruffatto

Tè al veleno di Angela Barbiera

Giova abitava in una strada chiusa.
La sua era la terzultima casa sulla destra prima che la via, alla periferia della città, finisse. Non sapeva come terminasse, però.
Credeva che dietro alle lamiere ondulate, dietro cui si infilava il pallone e che solo i ragazzi grandi potevano andare a recuperare, ci potesse essere persino un deserto di sabbia.

Quella che invece conosceva bene era la signora Trogolo, una vecchiaccia sdentata, che faceva la vocina dolce quando parlava con suo padre, ma che poi si trasformava in una bestiaccia che bagnava lei e gli altri bambini con la scusa di cancellare i tratti di gesso che disegnavano in terra davanti all’entrata della sua casa, e su cui saltellavano spingendo un sasso con un piede per far passare più in fretta i pomeriggi d’estate.

Così loro bambini si spostavano più in là a giocare con l’elastico, facendo piroette fantomatiche degne solo di grandi artisti.La grande bellezza della fanciullezza era proprio questa: che si poteva inventare di essere tutto, perché non si era ancora diventati niente.

La signora Trogolo aspettava suo padre in giardino tutte le sere, quando rientrava dal lavoro. Lui andava a sistemare le latte di vernice ricolme di terra sotto i roseti rampicanti, dopo che li aveva potati, o a raccogliere le foglie secche, e lei gli parlava fitto fitto dal di là della rete. E, dopo poco, lui attaccava a sbraitare. Urlava a Giova di smettere di correre dietro a Molly, se no lo avrebbe ucciso quel bastardo di un cane, che le aveva portato a casa per capriccio suo e di quella puttana di sua madre.
Proprio così la chiamava, una parola sporca e grossa che sapeva di faccenda seria.

Poi lui rientrava in casa e iniziava a urlare contro la nonna. Poi era tutto un rumore di stoviglie rotte e di tappeti che venivano trascinati fuori sul balcone, assieme ai suoi giochi. Allora Giova, per stare calma, sussurrava all’orecchio di Molly che non era niente, che sarebbe passato tutto in fretta, come le altre volte.

Ed era stato in uno di quei pomeriggi che aveva intravisto per la prima volta il ghigno bastardo della vecchia, che era tutta sdentata e neppure aveva abbassato la testa per la vergogna. Anzi, tronfia, era rientrata in casa senza neppure guardarla in faccia.

Quando sua madre tornava, e papà sembrava essersi calmato, Giova andava a chiudersi nella sua stanza, prima dell’inizio della fase dell’interrogatorio che lei non voleva sentire: «Dove sei stata? Con chi eri? A che ora hai finito? Quanti soldi hai speso?», che lui ripeteva tutte le sere, come una cantilena. La voce di suo padre si era fatta pacata ora, la nonna aveva rimesso a posto le stoviglie rimaste integre, i tappeti, i giochi. E tutto pareva rientrato nella normalità.

Allora Giova passava il tempo a guardare fuori dalla finestra. C’era ancora qualche bambino che rientrava dall’oratorio, attraversando la strada, il droghiere che si apprestava a ritirare la mercanzia dentro al negozio prima dell’orario di chiusura, il cuoco dell’osteria che usciva per gettare il primo sacco di rifiuti della serata.

Poi sentiva la madre dire che avrebbe voluto preparare la cena, ma il padre le rispondeva che avrebbero mangiato tutti di là, insieme alla nonna e al nonno, che nel frattempo era rientrato anche lui dal cantiere con i vestiti imbrattati di calce, le scarpe rosse di mattoni, le assi delle impalcature sul retro del camioncino, che aveva parcheggiato in garage.

A Giova avevano sempre impedito di scendere nell’autorimessa e l’unica volta che aveva deciso di trasgredire, aveva notato dei sacchetti di sabbia, appoggiati in piedi al muro tutti in fila, come soldatini.
A niente erano servite le domande che aveva fatto poi alla nonna al riguardo, che l’aveva sgridata malamente, urlandole addosso che ne aveva già abbastanza delle grida di suo padre per via di quello che le raccontava tutte le sere la signora Trogolo. E che non chiedesse altro, perché neanche di quello voleva parlare.

La madre di solito in casa appariva una giovane donna triste, soprattutto al mattino. A volte però, finiva prima di lavorare, veniva a prenderla a casa e la portava di nascosto da tutti al Parco del Valentino. Lì, affittava un risciò con cui scorrazzavano come matte per le stradine pedonali del parco. Poi la madre si fermava davanti a un gazebo, confabulava con un uomo che pagava a Giova un gelato enorme, che lei si sedeva a mangiare sull’erba, proprio di fronte allo scorrere del fiume. Giova era felice e la madre pure. La scorgeva da lontano, togliersi le mollette che inamidavano i capelli lunghi e bruni che ora scuoteva a faccia sotto, poi al vento, rompendo il tempo con una risata, che era una meraviglia.

Mai l’aveva vista ridere a casa, così tanto. Mai una volta in vita sua.

L’accordo tra loro era che al ritorno avrebbero raccontato che erano state dalla tata Nella, una donna semplice a cui Giova a volte veniva affidata, se la nonna non se ne poteva occupare. Poi la madre salutava l’uomo con un bacio casto, si ricomponeva i capelli specchiandosi alla bell’e meglio nel vetro del gazebo, affinché qualche ricciolo ribelle non la tradisse. Poi prendeva Giova per mano e tornavano a casa, a volte addirittura a piedi. Giova era stanca ma non lo diceva a sua madre, che a quell’ora si entusiasmava per tutto.

Giova vedeva la signora Trogolo spiarle da dietro le tende, con la persiana abbassata, quando rientravano. Ma non avrebbe potuto sapere niente, se Giova non avesse parlato. Eppure doveva esserci stata una falla, forse qualcuno di nascosto le aveva seguite, perché poi Giova il pomeriggio dopo vedeva la vecchia parlottare con il padre.

Quella notte Giova si svegliò di soprassalto, nel sonno le era parso di sentire la madre urlare. Allora, invece di coprirsi la faccia con le coperte, si alzò col pigiamino indosso e camminò lungo il corridoio buio fino alla finestra del bagno, che dava sul balcone. Scavalcò il davanzale, poi scese lungo la scaletta, mentre Molly continuava a guaire. Giova le tenne il muso chiuso con le mani piccole per farla smettere e poi fece una cosa che non avrebbe mai dovuto fare nella vita.

Si affacciò sul garage, illuminato a giorno, dall’unico vetro non smerigliato che il nonno aveva sostituito perché Giova lo aveva rotto, lanciando la palla a Molly. Il padre usava i sacchetti di sabbia per colpire la madre, più e più volte, con una violenza inaudita, con la voglia di fare male.

«Così non ti restano i segni, puttana! Cosa credi che non so che ti vedi con quell’uomo, che ti regala i soldi per le calze di nylon e per il trucco? Sei una puttana e resti solo perché sei la madre di mia figlia. Ma ti aggiusto io la testa a te!» urlava lui, col morso stretto, mentre la mamma cercava di coprirsi il volto con le braccia e le mani aperte.

Giova tornò a letto.

Pensò che la soluzione sarebbe stata uccidere la signora Trogolo con il veleno per i topi che il nonno teneva in garage. Avrebbe solo dovuto convincere la vecchia a bere il .

thealveleno_ Angela Barbiera

Il nonno le aveva detto di non toccare il veleno perché i topi muoiono per emorragia.
Avrebbero trovato la vecchia esangue, dopo giorni, morta tra dolori atroci, dopo che avrebbe perso coscienza e la voglia di fare la spia. Ma il piano, a mano a mano che si faceva giorno, sfumava insieme alle luci dell’alba e il tutto le pareva troppo per una bambina come lei.

Sarebbe stato più facile bucare i sacchetti e svuotarli alla fine della via.
Nessuno se ne sarebbe accorto.
C’era un deserto di sabbia, lì in fondo.

Giovanna Ruffatto

Giovanna Ruffatto vive a Torino da quando è nata. È infermiera da trentadue anni. Da molto prima ha cominciato a leggere in modo ossessivo compulsivo. Dopo anche a scrivere, partecipando a corsi di scrittura creativa dell’Associazione Casseta Popular e dell’Assessorato della Gioventù di Torino, e a un corso di Paola Mastrocola. Ha scritto su Typee.

 

Blam

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