Il racconto della domenica: Il più grande gesto d’amore di Massimiliano Piccolo
I limiti che dividono la Vita dalla Morte sono, nella migliore delle ipotesi, vaghi e confusi. Chi può dire dove finisca l’una e cominci l’altra?
La sepoltura prematura, Edgar Allan Poe
Il mio viaggio verso la morte è iniziato undici anni fa nella camera del reparto di andrologia dell’ospedale di Sondrio. È difficile dimenticare il momento in cui i medici mi avevano comunicato, in mezzo all’odore di urina proveniente dai letti dei compagni di stanza, che i valori del Psa erano sballati e che avrei dovuto sottopormi a ulteriori accertamenti. Ricordo che avevo guardato fuori dalla finestra e avevo notato le montagne tutte innevate. Era pieno inverno e faceva un gran freddo.
In quel preciso istante avevo deciso che, a causa dell’ipocondria che mi portavo appresso da una buona trentina di anni, sarei morto di lì a quattro, cinque mesi al massimo. Così avevo firmato il plico di fogli per le dimissioni volontarie, mi ero avviato a casa e, una volta fra le mura domestiche, avevo cominciato a preparare il trolley per la mia rapida dipartita. Ci avevo messo dentro soltanto qualche maglietta, mutande, un costume e tre paia di pantaloncini.
Un momento difficile, anzi difficilissimo, quando ci sono una moglie e un paio di figli, ormai adulti, di mezzo. Marianna, con una certa disperazione, mi aveva chiesto perché stessi facendo la valigia per andarmene di casa. «Sto morendo» mi ero limitato a sussurrarle con uno sguardo tra il funereo e lo scoraggiato. Lei aveva cercato di fermarmi, prima a parole, poi provando a bloccarmi la strada del lungo corridoio di casa e ancora aggrappandosi alle caviglie mentre muovevo gli ultimi passi della mia esistenza terrena. Poi, poco prima di chiudere la porta, le avevo detto che l’amavo tanto e che dovevo per forza andarmene.
Dovevo andarmene a morire, a morire come fanno i gatti. Dal trentennio in cui avevo adottato un approccio di vita ipocondriaco, vedevo la morte un giorno sì e uno no e, come è normale che sia, avevo già proiettato l’immagine dei miei ultimi respiri su questo dannato e pericolosissimo pianeta.
Così nel tempo, per prepararmi alla mia triste scomparsa, avevo acquistato una sottospecie di baracca con il tetto in paglia a Koh Lanta, una piccola isola thailandese abbastanza frequentata ma non ancora preda della cementificazione selvaggia frutto del turismo occidentale. Marianna sapeva tutto e aveva pensato, quando glielo avevo confessato, che fossi completamente uscito di testa. «Sarà il posto in cui morirò, senza dare fastidio a te e a nessun altro. Consideralo il più grande gesto d’amore di chi non vuole essere un peso per te e per gli altri.»
Marianna si era limitata a ridermi in faccia e a credere che stessi scherzando. Ogni Natale non perdeva tempo per sedersi alla tavolata imbandita a cui accorrevano i nostri due figli, le consorti e i nipotini, e ricordare dello strano scherzo che gli avevo fatto quella volta. Io ribadivo che non si trattava di uno scherzo, suscitando le incontenibili risate dell’intera famiglia, ma della più cruda realtà: «Farò come i gatti, è inutile che ve la ridete».
Così ecco che mi ero ritrovato ad acquistare un biglietto aereo di sola andata per l’isola di Koh Lanta. Un viaggio di una buona quindicina di ore verso Bangkok con un paio di scali, tanto lungo da sperare di non abbandonare il corpo sullo stretto sedile di seconda classe di un aereo Aeroflot al fianco di una vecchia che trangugiava vodka acquistata al duty free. Mentre ero seduto ad aspettare, pensavo soltanto che non volevo e non potevo morire in quota, ma che dovevo semplicemente morire da solo. Possibilmente in un posto caldo, lasciandomi avvolgere dal calore del sole su una spiaggia isolata, o magari in una foresta mentre camminavo e mi accasciavo cullandomi nella sua frescura, senza un letto che sarebbe divenuto prigione, piaghe da decubito e iniezioni per lenire il dolore, senza pianti trattenuti, sguardi tristi che fingevano di essere felici e carezze sulle guance incavate o sulla fronte sbiadita dall’incedere della malattia.
Una volta che avevo raccattato il mio trolley dal nastro dei bagagli, avevo affrontato un ufficiale thailandese in divisa verde militare per l’entrata nel Paese e il timbro sul passaporto. Era un uomo sulla trentina, con sguardo severo, che mi aveva chiesto dove alloggiassi, il motivo e la durata della visita. Io gli avevo risposto porgendogli il foglietto con l’indirizzo della mia baracca e dicendo soltanto: «Sono venuto qui a morire, quindi per l’eternità». Lui mi aveva guardato qualche istante, forse per cercare di decifrare il mio umorismo nero, poi mi aveva reso il passaporto lasciandosi andare a un fragile sorriso di benvenuto.
Poi mi ero incamminato verso l’uscita e una sensazione completamente nuova mi aveva avvolto, forse a causa dell’eccesso di umidità. A ogni modo, non so come, forse perché senza più nulla da perdere, ero riuscito a uscire da Bangkok e a prendere i vari mezzi fino all’isoletta di Koh Lanta. Lì, una volta superato il porticciolo di attracco, avevo preso un van grigio con altri turisti e mi ero fatto portare fino alla baracca dove sarei morto in santissima pace.
La baracca era una specie di bungalow in un campo senza niente attorno, a parte qualche palma e una splendida vista sul mare. Il villaggio di pescatori più vicino era a un paio di chilometri e c’era soltanto qualche bancarella frequentata da locali. Non appena lo avevo visto, avevo compreso che era il luogo ideale per morire.
Così, andando ogni tanto al villaggio a fare provviste e limitandomi a stare a guardare l’oceano sdraiato sulla sabbia bianca, avevo cominciato ad aspettare il momento del rapido deteriorarsi del corpo, del senso di inappetenza e dell’inevitabile dimagrimento che mi avrebbe portato da un paradiso all’altro.
Oggi sono undici anni esatti dal mio sbarco a Koh Lanta. Ogni tanto sento Marianna e i miei figli che mi chiedono come sto. Io gli rispondo che è quasi arrivato il momento. Nel frattempo la baracca è diventata una casa seria con altri tanti piccoli bungalow attorno che affitto ai turisti affamati di mare e natura. Ho addirittura messo su qualche chilo e sono perennemente abbronzato. Nuoto ogni mattina all’alba e rimango ad attendere segni dal mio corpo per l’imminente dipartita. Il resto del tempo lo passo a contemplare l’oceano e a riflettere, tra un cocktail e l’altro, sul senso della vita e su quello morte.
Mi capita, a volte, di sentirmi meno bene del solito e di cominciare a dirigermi verso la parte di terreno in cui ho lasciato crescere una piccola foresta, non destinata alla costruzione di altri bungalow, ma al ritiro perenne dall’umana esistenza. Così, quando sento quella debolezza tipica di chi sta morendo, raggiungo la mia foresta mortuaria, mi sdraio a terra tra gli alberi di banano, il rumore delle onde e aspetto che tutto finisca. È capitato almeno una ventina di volte in questi undici anni, ma dopo qualche ora di attesa sono costretto a tornare alla vita tropicale. Così vado sulla spiaggia, raggiungo il baretto di paglia poco distante, e mi prendo un altro cocktail per brindare alla vita che, ancora una volta, mi ha concesso una nuova occasione.
Massimiliano Piccolo