Il racconto della domenica: Il mio corpo si salva da solo di Marta Cristofanini
È la sua voce, e al telefono ride e mi dice: dovresti vederlo, è buffissimo. Ti somiglia, in un certo senso.
La sua voce, al mio orecchio, e sono passati anni e l’unica cosa a cui riesco a pensare non è quell’appendice di sé uscitale dal corpo qualche settimana prima, ma lei che è occhi naso bocca tra le mie gambe mentre mi individua il clitoride con la lingua, io che mando indietro la testa e dico diomio, lei che scoppia a ridere e mi stringe più forte le mani.
Hey, guarda che hai capito bene, ti sto invitando a vederlo. A conoscerlo.
Dovrei rispondere: sì, certamente. Dovrei rispondere: ma è meraviglioso, certo che verrò, dimmi quando, e verrò sicuramente, gli porterò una cuffietta, un bavaglino, perché è ancora troppo piccolo per uno di quei libri illustrati che ci piacevano molto, vero?
Invece le chiedo se è contenta che sia maschio, mentre mi chiudo a chiave dentro il bagno anche se non c’è ancora nessuno in casa.
Sento silenzio e lei che non fa nulla per camuffarlo in qualcosa di più intimo, di meno assurdo.
Mi dice: avrei preferito una femmina, sì. Darle il tuo nome, insegnarle a combattere il patriarcato. Ma temo dovrò accontentarmi solo della seconda opzione.
Mi sdraio dentro la vasca e apro il rubinetto. Mentre sprofondo nell’abbagliante spazio laccato di bianco dico: Giulia giulia giulia. Lo dico come in una di quelle sere. Mi volteggia intorno provando un doppio axel, con la rosa marcia tra i denti che le hanno offerto al pub insieme al gin tonic. Ride – sento i suoi piedi sfregare l’asfalto bagnato, le sue mani sfilarmi i collant poco dopo –, ripete lei il mio nome adesso e la sento guardarmi negli occhi, piede contro piede, nel letto, una all’estremità dell’altra.
L’acqua ha raggiunto il mio ombelico. I jeans si fanno pesanti e più scuri, il maglione ondeggia come fanno i capelli nel mare.
Dico: Giulia, io non farò un figlio perché non ho saputo fare niente di me stessa.
Ora diventi cattiva, mi dice. Vorrei dirle che non lo divento, lo sono sempre stata, ma era lei a tenermi a bada. Invece mi si chiude la gola e rispondo: è così.
La sento spostarsi da dove sta chiamando, sento il cigolio di un materasso usurato. Poi sento un fruscio, e una specie di schiocco secco di labbra piccole.
È lì? È lì con te?
Sì. Cerco di farlo dormire.
Immagino il neonato mentre le mastica il seno. Quando sono così piccoli hanno degli occhi alieni, vitrei. Lo stomaco mi si contrae.
Scusami per quello che ti ho appena detto. Sono una stronza frustrata che non sa essere felice per quello che capita agli altri. Per quello che capita a te.
Socchiudo la bocca lasciando entrare un po’ d’acqua. È fredda e mi fanno male i denti.
Non sei stronza, Vi. Ammettilo, sei solo scioccata dalla mia chiamata. Hey, è un evento, puoi ammetterlo! Ma le cose si sono fatte impegnative negli ultimi anni. Poi Nicco ha fatto un’espressione davvero buffa questa mattina, ha corrugato la fronte spostandosi il labbro superiore con la mano, così, come facevi tu quando eri imbarazzata o eccitata per qualcosa, et voilà. Piacere mio, Vi.
Penso: oh, sì. È sempre stato un piacere tuo.
La prima volta che mi hai baciata, la prima volta che hai finto di non ricordarlo. Tutto questo prima che trovassi insopportabile il mio corpo intrappolato nel costume da pattinaggio, e che andare agli allenamenti insieme fosse solo una scusa per guardarti infilare i pattini, fare la spaccona, cadere sul ghiaccio, vederti arrabbiata, risollevarti. Era prima di capire che preferivo le Dr. Martens alle paillettes, anche se sui prati, sul cemento, continuavo ad allenarmi con te e le tue giravolte, strisciando le ginocchia a terra come carezze. Tornavamo a casa per guarirci e quando provavo a dirti forse è tardi, tua mamma non vorrà, tu dicevi: ma è un piacere mio.
Oh, che, ci sei ancora?
L’acqua sta precipitando sulle piastrelle del pavimento, sta inzuppando il tappetino su cui è disegnata un’orca con gli occhi a forma di cuore e un coltello sotto la pinna, sulla pancia una scritta: «Killer whales are adorable».
Prendo un respiro. I vestiti premono giù come piombo e ho i crampi allo stomaco.
Ci sono. Dove abiti, ora?
Una pausa.
Un po’ più a nord. Stesso continente, giuro.
Avevamo lavorato nella stessa città finita la scuola, io sollevata, lei rancorosa: si era rotta i legamenti e non poteva più stupire i maschi a ricreazione con le sue spaccate in aria, fare carriera nel pattinaggio artistico era fuori questione. Nelle notti passate a campeggiare in collina i nostri aliti disegnavano aureole di condensa intorno al fuoco e graffiavamo la brina ghiacciata sul parabrezza dell’auto tracciando otto rovesciati: piste da Go Kart o l’infinito, l’importante era che le nocche si scontrassero al centro.
Ci eravamo già promesse tutto: un van, delle vecchie cartine stradali, un ukulele che eravamo incapaci di accordare. Le baciavo le ginocchia dicendole che non saremmo tornate mai più, e lei mandava la testa indietro avvampando in una risata ferina, mi raccoglieva la nuca tra i palmi, mi diceva: che aspetti, Vi? Portami via da ’sta città di merda.
C’erano mattine dopo la notte, d’estate, in cui correvamo nude verso il mare. Vinceva il tuffo più audace o quello più stupido, a seconda del momento. In acqua giocavamo a fare il morto, le mani intrecciate, testa contro testa. Galleggiavamo così, in avaria, naufragando verso il largo ancorate a un mignolo, fino a che la pelle non diventava trasparente e le vene così azzurre che sembravano svanire. Nessuna delle due chiudeva gli occhi. Nessuna delle due diceva: andiamocene, ho freddo. Risalivamo lente verso riva solo quando cominciavano ad arrivare altre macchine, annunciate dai bagliori intermittenti che risalivano il litorale. Ci strofinavamo via l’acqua a vicenda, chiuse nel furgone, in silenzio. Solo quando metteva in moto mi parlava, e diceva sempre la stessa cosa: hey Vi. Salve per un soffio, eh?
Mi chiedo se il pavimento sia abbastanza isolato. In caso contrario, quanto ci metteranno le infiltrazioni a passare nella casa del vicino?
Penseranno che mi stia ammazzando o qualcosa del genere.
Che hai detto?
Dovrei alzarmi e fare una cosa o qui succede un casino. Ma non ne ho proprio voglia, sai? Di alzarmi, intendo.
Senti, forse ti ho chiamata in un brutto momento. Così, all’improvviso. Sono una cretina. Io potrei, non so, vorrei mandarti il mio indirizzo. Così puoi decidere, con calma, se, quando. E, Vi?
Sì?
Ci tengo. Dico davvero.
Il crampo si trasforma in spasmo, le gambe non le sento più da un pezzo. Vorrei dirle che avrei voluto saperlo prima, che avrei voluto sapere e basta.
Lo so. Anche io.
La sento sorridere.
A presto allora. Ti aspettiamo, Vi.
Quando mi alzo l’acqua fa un rumore fortissimo, come se mi fossi tuffata, e vedo lontano il sorriso storto dell’orca assassina che galleggia verso la porta. Solo allora sento un altro rumore, un rumore che sembra incessante, e sono i pugni di Sara sulla porta e la sua voce che ripete Vi cazzo aprimi, ma io faccio solo in tempo ad accasciarmi sul gabinetto stringendomi lo stomaco, la faccia dentro al cesso, e mentre il mio corpo si svuota in modo violento e sgraziato penso che non ho bisogno di un figlio per essere felice, non ho bisogno di Giulia per essere felice, non ne ho bisogno perché il mio corpo si salva da solo.
Quando mi alzo e vado ad aprire, il mio corpo è vuoto, è leggero. Sara mi guarda immobile, i pantaloni sono fradici fino alle caviglie. Dice che si sente stupida a chiedermelo ma me lo chiede lo stesso, è appoggiata con una mano allo stipite della porta, ha un’aria esausta e mi chiede se sto bene. Lo chiede scandendo le parole.
Non ho mai visto le vene di Sara diventare così azzurre che sembrano svanire.
Guardo in basso specchiandomi nel residuo d’acqua che s’increspa tra me e lei, e penso che l’acqua ha sempre seppellito e risputato mondi interi dalla sua pancia, e che se ci sono naufraghi da salvare, li salverà.
Hey Vi. Salve per un soffio, eh?
Alzo la testa, sorrido. Rispondo sì, anche a lei, ovunque sia.
A Irenù
Marta Cristofanini