Il racconto della domenica: Il gene egoista di Sofia Castagna

 Il racconto della domenica: Il gene egoista di Sofia Castagna

Illustrazione di Valentina Cascio

Mentre partoriva, pensava all’egoismo.

Era un po’ l’egoismo di suo padre, un po’ del padre di suo figlio, un po’ dell’umanità. Non era un pensiero coerente, non riusciva a risalire alle sue cause. Era un pensiero-emozione che emergeva dai filamenti di sangue e dal liquido amniotico, e rimaneva inviluppato tra le mani rosse e viscide delle infermiere.

Pensava poi al suo egoismo, perché era soprattutto per egoismo che partoriva.

Partoriva e provava dolore. Era un po’ il dolore di sua madre, un po’ di sé stessa, un po’ dell’umanità. Erano fitte profonde e inesorabili. Le dicevano di spingere, e spingere, e spingere, e l’infermiera era brutta e assente e brusca. Aveva occhi molto tondi e chiari, da animale stupido. C’era troppa luce, la luce elettrica e assordante delle lampade al neon piantate sopra alla sua camiciola da partoriente.

Le gambe erano sul divaricatore. Lo sguardo le ballava sul soffitto e sulla finestrella. Un medico giovane teneva in mano una cartella clinica e le fissava il sangue osservandole le cosce. Ogni tanto si spostava e strizzava gli occhi, ripeteva Tra poco si vedrà la testa finché lei si riempì di odio; gli guardava i capelli leccati sulla fronte e provava odio tremendo e immensa pena; pensava Perché quest’uomo mi deve guardare, chi gli ha dato il diritto di fare cosa? È bastato un titolo di studio?

Di tanto in tanto le infermiere parlavano di affari personali: a una era morto il gatto; quella con gli occhi da animale pareva interessata, chiedeva da quanti anni lo avesse, se mangiasse un certo tipo di scatolette di cibo per gatti, da vivo. Lei spinga, signora! Spinga, di più!

 

Non era una signora. Non si era sposata. Non sapeva perché la gente si ostinasse nella sicurezza dei titoli; bastava forse l’età e il fatto che stesse partorendo? Bastava il sangue? Nessuno guardava se aveva la fede? Aveva solo un anellino di argento ondulato, con al centro una spirale. Glielo aveva regalato un suo amico dell’università, era uno sveglio, con scarpe di pelle e occhi mobili. Le faceva il filo, le parlava di Kierkegaard, l’amava, voleva solo scoparla.

Spinga! Spinga ancora!

Non si ricordava il cognome, era qualcosa con la L, c’entrava con la luce, o forse con le foglie. Aveva un sorriso strano, come aperto, socchiuso. I denti gli spuntavano dalle labbra come piccoli ladri. Faceva politica. Le piaceva come la prendeva, le spinte sicure e violente, i cuscini scuri della sua camera, l’odore di fumo che impregnava la tappezzeria anche quando lui non fumava. Gli chiedeva se la amava, lui si schioccava le dita, le parlava del seduttore, del don Giovanni, dell’Abramo. Era sempre l’etica, la vita etica, l’angoscia e la disperazione, Kierkegaard.

A un certo punto si era stancato di scoparla, voleva solo parlare dell’esistenza e del Singolo. Sosteneva che lei fosse una ragazza brillante, le diceva Perché hai lasciato l’università, Milena? Le assemblee non sono le stesse, la gente ragiona male. Devi tornare e aiutarmi, è importante, è più importante.

Si era offesa. Credeva che ogni volta che lui le aveva premuto la fronte contro la testiera del letto l’avesse fatto perché l’amava, o magari avrebbe potuto amarla, non perché voleva che dibattesse con lui. Si era sentita male, aveva lasciato la stanza con i cuscini scuri e il fumo e non aveva più letto Kierkegaard.

Spinga, signora, forza!

Pensava a suo padre. Faceva un lavoro importante, guadagnava, tornava tardi. Era un uomo rigido. Le gridava addosso quando si dimenticava di rifare il letto, di mettere le tazze in lavastoviglie. Pareva gravargli sul capo un’immensa voglia di prendersela con il prossimo. Sua madre taceva, era contenta delle piccole sorprese del marito, quando la portava in centro ogni tanto tornava felice, faceva ballare le scarpe col tacco sul parquet, e le sostava sul viso un’aria soddisfatta di bambina.

Lei provava pena per sua madre, pena tremenda e immenso odio. La vedeva bearsi delle briciole e su queste misere briciole piroettare come una fidanzata giovane, piena di aspettative e di gratitudine. La madre si stringeva addosso i maglioncini morbidi e la riconoscenza mentre gli preparava la cena.

Lei non parlava troppo, a volte pensava al politico che iniziava per L, a volte no. Pensava a sua madre che amava suo padre in quel modo stupido, stolido, da cane cucciolo. 

Un giorno aveva trovato un lavoro in centro e se n’era andata.

Viveva ora in un monolocale tranquillo, con le pareti gialline, e un angolo cottura funzionale. Si crogiolava nella gioia di cucinare quello che voleva e di lasciare lo zucchero a solidificarsi nelle tazzine di caffè sporche, sul lavabo.

Poi seppe di essere incinta. Accadde come accade sempre, tutte le volte. Non c’era niente di poetico o di assurdo. Gli assorbenti non si sporcavano più, ne buttò due pacchi interi.

Mangiava e cucinava sempre le stesse cose, guardava fuori dalla finestra e desiderava avere in camera da letto un canarino che cantasse al mattino, mentre le cresceva la pancia. Lo comprò.

I jeans non le entravano più, il canarino cantava e pareva tutto sommato contento della sua vita, beccava il mangime e si puliva il becco chiaro nella vaschetta dell’acqua. Lei intanto si tagliò i capelli con le forbici da cucina, si fece una frangia sommaria e spettinata e tagliò il resto fino alle spalle. Non aveva voglia di uscire, odiava i parrucchieri.

Continui, continui!

La madre veniva a trovarla spesso, pareva preoccupata ma nel suo solito modo stolido da cane cucciolo. I suoi acquosi occhi castani si posavano sulle tazzine e sulla frangia. Sembrava sempre che dovesse essere sul punto di piangere, ma poi non piangeva mai.

Il padre venne a farle visita una volta, entrò dalla porta e non fissò le tazzine e la frangia, ma solo la pancia e il canarino che cantava, poi si volse alla madre e disse Giulia torna a casa presto, oggi ricordati che ho la riunione.

Lei non sapeva cosa la spingesse a tenere il bambino. Pensava bambino, ma era quello che era, era un piccolo qualcosa oltre le smagliature vicino all’ombelico. Non lo teneva per il politico con le scarpe di pelle, non lo teneva nemmeno perché aveva paura. Lo teneva perché non le pareva che fosse altro da sé stessa, ma solo un altro pezzo di carne tra tanti, come una porzione di muscolo nel braccio o di grasso sui fianchi. Non era altro da sé; pensava che al politico sarebbe piaciuto sapere che lei aveva scoperto il motivo per il quale i piccoli di uomini venivano fatti crescere all’interno di adulti di altri uomini.

Lo teneva perché le pareva di amarlo anche se non lo conosceva, e per quel qualcosa non provava né pena, né pena tremenda o immenso odio, ma solo una forma molto simile all’amore, quale non ne aveva mai provato. Guardava ancora il suo canarino e gli chiedeva Perché voglio tenere questo bambino? Ma il canarino era muto, non parlava, cantava soltanto.

Lo vedo, prendilo!

Le infermiere annuirono, presero l’involto di carne sanguinante fra le mani.

Lei si stupì, il qualcosa urlava, urlava diversamente da un muscolo nel suo braccio o dal grasso sui suoi fianchi – benché lo fosse stato –; urlava sincero e vivo e urlava anche lei, urlava, e allora il pensiero si staccò dai filamenti di sangue e liquido amniotico e si distese davanti a lei chiaro ed evidente come tutte le cose esatte.

Sofia Castagna

Blam

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