Il racconto della domenica: Giradischi di Francesco Spiedo
Le coppie, prima di diventare tali, sperimentano molteplici strategie di seduzione. È un andirivieni di gesti attenti, di pensieri telecomandati da lontano. Una ripetizione, ogni volta sfacciatamente uguale, di piccole variazioni sul tema. Alcune coppie invece restano, e diventano ologrammi sullo sfondo, sovrapposizioni di volti, richiami, memorie anche quando le controparti cambiano e le storie finiscono: qualcosa rimane, qualcosa che si incolla alla pelle e spinge a ricercare l’uguale, ripetere ciò che si è perso. Ed era proprio questo che accadde alla sua storia con Adele. Lei era partita con degli amici per farlo ingelosire, lui aveva deciso di fregarsene della gelosia e a nulla servì quel disco regalato come dichiarazione d’amore, palese affermazione d’intenti. Il disco di una sconosciuta, una certa Simone de Oliveira, ma che lei giurava essere la voce più promettente di tutto il Portogallo, acquistato in un’assolata Lisbona, mentre gli amici si riparavano dal sole bevendo del porto. Nonostante la distanza, diceva quel disco, nonostante tutto il mare che ci separa, io ti penso. Se fosse brava, quella Simone de Olivera, lui non poté dirglielo mai. Si lasciarono al ritorno di lei, e il disco era tutto quanto restava di quella tenera, maledetta, irripetibile, rimpianta storia.
Sotto la pioggia Carlo capì finalmente perché avesse acquistato, nell’estate successiva alla disastrosa separazione, un giradischi Yamaha X-33R e come mai quell’oggetto, privo di qualsivoglia validità estetica, fosse stato capace di sopravvivere a ogni successivo trasloco, alle diverse disposizioni mobiliari, al susseguirsi delle compagne e dei loro gusti. Aveva sempre trovato il suo posto: accanto alla libreria in compensato della sua stanza da studente; tra due divanetti tappezzati di verde nella casa condivisa con amici; sopra un mobile d’acciaio nella città inospitale che aveva rovinato la sua relazione con Eloisa; nella claustrofobica casa dei genitori nella quale era tornato; sotto pile di vestiti in quella camera dove avrebbe scopato senza voglia la donna che sarebbe poi diventata sua moglie; collegato a due amplificatori che non avrebbero mai funzionato, esattamente come il suo matrimonio. Quel giradischi era sopravvissuto a tutto, finendo insieme a lui nella stanza ammobiliata dove ormai viveva. L’aveva tenuto perché, scoprì solo in seguito con prevedibile amarezza, perché gli ricordava Adele e la possibilità, remota e inutile, di ascoltare Simone de Olivera e recuperare così l’innocenza, la banale volontà d’essere giovani, innamorati e felici. Perché ci fosse sempre una porta a collegarli, un biglietto di sola andata per il passato.
La notizia della morte di Adele lo raggiunse che pioveva forte e lui fu costretto a trovare riparo sotto uno dei tanti cavalcavia che portano fuori città. Tra i murales dai colori accesi c’erano i manifesti funebri, già sbiaditi, strappati, che si leggevano appena, ma quel tanto che bastava per esserne sicuri. Era Adele, la sua Adele, morta venti giorni prima, proprio quando dall’altra parte della città un giudice assonnato decretava lo sfratto, sancendo la fine di ogni rapporto con sua moglie: la casa sarebbe andata a lei e a lui soltanto i ricordi. Mentre la bocca imparziale della giustizia pronunciava la sentenza, Carlo si era sentito solo nell’aria spessa e polverosa del tribunale, sebbene odiasse quella donna e non temesse la solitudine del divorzio, né la povertà nella quale sarebbe precipitato, o l’imbarazzo degli amici che avrebbero giudicato la fine di quella storia come un suo personale fallimento. Venti giorni fa Carlo aveva percepito lo scricchiolare di una trave mangiata dai tarli che improvvisamente cede, ne aveva sentito il tonfo, ne aveva provato lo schianto, ma non aveva capito. Perché avrebbe dovuto attendere venti giorni, finché sotto il cavalcavia, scosso dalla corsa di un treno merci che correva sulla sua testa, Carlo si sarebbe sentito di nuovo solo, consapevole che, mentre gli avvocati firmavano le ultime inutili carte, la sua Adele se n’era andata per sempre insieme alla speranza. La trave silenziosa giaceva come un corpo vuoto e Carlo finalmente la vide, cosa morta in un mondo inconsistente, finalmente capì. Venti giorni dopo, quando tutto era già finito, tornò a casa incurante del vento e dell’acqua, incontenibile era il desiderio di scoprire Simone de Oliveira, ascoltarne la voce, ora che era scomparsa anche la più remota possibilità di parlare un’ultima volta con Adele. La sua Adele. Con la lentezza di chi teme l’errore sollevò la puntina, posizionò il disco, fece una leggera pressione affinché trovasse l’incastro, tirò il fiato, poggiò la testina e chiuse gli occhi. Le note di una malinconica ballata portoghese avrebbero dovuto invadere la stanza. La voce di una cantante sconosciuta avrebbe dovuto far defluire i ricordi, aiutarlo a metabolizzare il lutto, ma il disco girava senza emettere suoni.
Attese, commentò tra i denti l’insolita scelta del silenzio all’inizio di una canzone, aprì gli occhi certo d’aver sbagliato qualcosa. Si avvicinò al giradischi provando prima a muovere le manopole con delicatezza poi, imitando un bambino che non capisce le regole, che è sicuro di aver fatto tutto come si deve, iniziò a toccare, premere, spingere con forza, ma servì a poco. La puntina era ben posizionata, il disco girava, eppure nulla prese il posto del silenzio. Pensò a uno scherzo, provò ancora a far funzionare il giradischi poi, sconfitto, rassegnato all’idea che si fosse danneggiato nel vagare di quegli anni, si lasciò cadere sul letto. Quando le orecchie s’abituarono al ronzio dell’apparecchio, si rese conto che quello che sentiva non era il rumore del vecchio Yamaha, non era la puntina che strisciava sul disco, ma era un respiro, sommesso, lento, affaticato. Si avvicinò all’apparecchio e l’impressione di essere nella stessa stanza con un moribondo crebbe fino a ripiegare le pareti, a sciogliere la carta da parati, a schiacciare l’armadio e il letto. La camera era un foglio accartocciato e al centro della pallina stropicciata c’erano lui e quel giradischi che respirava a fatica. Qualcosa in quell’altalena di fiato gli rendeva impossibile staccarsene. Più Carlo si avvicinava, più il respiro si faceva stanco, breve, lontano. Finì per poggiare l’orecchio contro il giradischi e una malinconia invincibile s’impossessò di lui. Voci sconosciute sussurravano qualcosa, le parole erano incomprensibili, coperte dai sospiri, ma il senso era chiaro: qualcuno domandò quanto tempo mancasse e la frase suonò crudele in quel mondo fatto di accenni. Il resto della conversazione sfumò come un incubo alle luci dell’alba. Il suono, proveniente da un petto malato e sudato, fu a lungo l’unica nota, per quanto flebile, di vita, poi Carlo riconobbe quel respiro. Quante volte l’aveva già ascoltato, seduti fianco a fianco o stesi sotto le coperte umide, mentre lei lo guardava parlare oppure dormiva ed era lui a restare vigile e in silenzio, a scrutarle la pelle, cercando il mistero dentro il petto e quel respiro sempre sul punto di spezzarsi. Non ebbe più alcun dubbio e iniziò ad accarezzare il disco, piano, con dolcezza e la consapevolezza che l’attimo fatale si stava avvicinando. Un terrore crescente s’impadronì del suo cuore spingendo i battiti oltre la soglia naturale e producendo un rumore, tra gola e orecchio, che risuonando nella pancia cresceva fino a rendergli impossibile percepire il respiro dentro la macchina. Si maledì, provò a calmarsi, trattenne il fiato, sincronizzò il suo battito con quello del moribondo, tornò pietra. S’aggrappava a quel respiro come se non avesse già letto il futuro, sperava, chiudendo gli occhi, che qualcos’altro potesse accadere, qualsiasi cosa meno che l’irreparabile. Avrebbe voluto spegnere tutto, sollevare la puntina, eppure un’altra paura, altrettanto viva e forte, lo paralizzò. Sapeva che quella era la fine, ma era quanto gli rimaneva da ascoltare. Denso di vergogna e dolore, continuò a origliare anche quando il disco iniziò a grattare, a tossire. Poi l’apparecchio rallentò fino a spegnersi.
Carlo rimase immobile, e la notte tornò invadente e rumorosa. La stanza provò a distendersi, le cose a riprendere il proprio posto, ma l’uomo non s’accorse di nulla, neppure del pianto sommesso che usciva dall’altoparlante del giradischi. Adele, Adele, piangeva Carlo. Adele, Adele, aveva pianto e piangeva di nuovo un uomo che non era lui, registrato su quel disco che non cantava più l’inizio, bensì la fine di tutte le storie d’amore.
Francesco Spiedo