Il racconto della domenica: Filomena di Silvia Grossi
Filomena di mestiere fa la schiattamorti e anche la baby-sitter qualche volta, ma solo per arrotondare.
Lo stipendio da becchina, infatti, non le basta per mettere da parte i soldi che le servono, e sono tanti, per realizzare il suo unico sogno: un matrimonio da favola, uno di quelli con tanti invitati con le gambe sotto il tavolo e lei, la sposa, che fa il giro del ristorante con indosso quell’abito a sirena che sta in vetrina al Paradiso della Sposa e su cui ha messo gli occhi già da un pezzo.
Mentre passa lentamente il pettine fra riccioli azzurrini e fini, Filomena si figura la scena: lei seguita al passo di una danza sinuosa e ipnotica (un merengue? No, meglio una lambada) da metri e metri di strascico mentre si accerta che i commensali abbiano gradito le pietanze, che prevede numerose, ma rigorosamente miniporzionate.
Se non fosse per la sua festa, del resto, mai e poi mai avrebbe accettato la proposta di badare quel pomeriggio al piccolo Luigino Esposito, il figlio del veterinario del quarto piano, che parla, parla e strilla e corre e scalcia sempre facendole una capa tanta, mica come la signora Rosa, pace all’anima sua, che non emette un fiato né abbozza una protesta, mentre Filomena, assorta nei suoi progetti, le apre con delicatezza la bocca per riempirla con un’ostia gonfia di bambagia. Un tocco di fard ed è pronta. Per sempre. In fondo anche la morte, pensa accarezzando lievemente la guancia dell’ottuagenaria trapassata, ha i suoi piccoli vantaggi, vero?
Filomena rimira il suo lavoro soddisfatta: la signora Rosa è proprio una bella morta, così pallida ed elegante, come una sposa. E pazienza, pensa Filomena, che lei un buon candidato a promesso sposo non l’ha ancora trovato. Arriverà, se lo sente, arriverà certo anche per lei il momento in cui l’amore le riscalderà il cuore e magari anche i piedi a letto la sera, che a passare tante ore in una camera mortuaria si patisce pure un certo freddo.
Filomena si stringe nel cardigan slabbrato nero di due taglie più grandi della sua che le ha prestato Gino, le dita delle mani come candele di cera spente ficcate nelle tasche. Gino la sta aspettando fuori in maniche di camicia, ha sempre caldo lui, la giacca nera appoggiata sulla spalla, la sigaretta sbilenca all’angolo della bocca. È ora di andare a chiamarlo ma prima che Gino porti la salma nella camera ardente bisogna che lei si accerti che tutto sia perfetto.
Perfetto, sì, perché i suoi morti sono famosi in tutto il rione per essere sempre impeccabili, mica come i suoi fidanzati. Non era andata bene con Genny, lui per la testa aveva sempre e solo il Napoli, ogni domenica, anche in trasferta, e di sposarsi proprio non teneva genio. E ancora peggio era andata con Carmine che per sposarsi invece non teneva la capa. Chissà se la signora Rosa era stata più fortunata, poverella, si chiede Filomena mentre chiude l’ultimo bottone – un bottoncino proprio fine, piccolino, di madreperla, che sorprendentemente le era sfuggito – della camicetta in seta, seta vera, mica viscosa, alla morta. Certo lei una fede al dito ce l’ha ed è bella grossa e lucente, nota, e del resto ormai, felice o meno, quel che è fatto, è fatto. E comunque l’avvocato De Sanctiis, davvero un bell’uomo, così distinto, la ricorderà sempre la sua mamma, si è raccomandato tanto con Filomena quando è venuto a portare i vestiti e le ha anche stretto la mano, la sua era così calda, grande e forte proprio come deve essere la mano di un uomo, con la scusa di allungarle quei cinquanta euro che lei non voleva, ma che alla fine ha accettato perché al servizio fotografico Prestige, quello completo di anteprima in costiera, non vuole proprio rinunciare. Del resto, la costiera è proprio una location ideale per i book degli sposi e poi sta pure a due passi!
Gino bussa alla porta, si affaccia dentro alla stanza di profilo mettendo così in risalto il suo buffo naso aquilino. I primi parenti sono appena arrivati, dice, stanno aspettando fuori, e lui deve portare il carrello con la bara nella camera ardente. È già tutto pronto, vedessi quanti fiori, ci sono anche quei gigli rosa che sembrano gambe di fenicottero che ti piacciono tanto. Filomena sorride, per oggi ha finito.
Nello spogliatoio si toglie il cardigan, lo piega con cura e lo infila nell’armadietto di Gino, poi si lava bene le mani, si aggiusta i capelli corvini, la camicetta stampata a fiori colorati, rosa, come i gigli, come i fenicotteri, come l’amore.
Infila svelta il corridoio. Il principale si è raccomandato tante volte di non farsi vedere da parenti e amici dei defunti, per non turbarli con la presenza di estranei, dice, ma oggi Filomena si è dilungata troppo e se non si sbriga farà tardi alla scuola di Luigino.
Sull’entrata intravede una donna di spalle. È alta, bionda, elegantissima nel lutto stretto. Stringe il braccio a un uomo. Filomena lo riconosce, è l’avvocato De Sanctiis. Che spalle larghe che ha, sembrano tagliate con l’accetta nel cappotto. Filomena fa un passo in avanti, poi si guarda la camicetta così chiassosa, inopportuna in mezzo a tutto quel bel nero, e allora gira i tacchi e rientra nello spogliatoio. Apre la finestra, si issa sulla panca e scavalca il battente, ci penserà Gino a chiudere, poi.
Nel parcheggio la aspetta il suo scooter. Gino le ha lavato il parabrezza e le ha lasciato pure un giglio sul cruscotto insieme a un biglietto in una bustina listata a lutto infilato nel parabrezza. Che scemo, pensa Filomena, però sorride accarezzando il fiore che adagia insieme al biglietto nella sua grande borsa di paglia con i manici. Lo leggerà più tardi, con calma, perché è convinta che le attese allunghino la vita e la rendano anche molto più dolce. Si infila il casco nero e mette in moto.
Chissà se proprio tutti i bambini sono così vitali come Luigino, si chiede mentre sfreccia zigzagando nei vicoli del rione. Chissà. Ci penserà più avanti, meglio fare un passo per volta. In fondo, si dice, «sul’à morte nun c’è rimedio».
Silvia Grossi